Fino a mangiare dell’erba

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La Sardegna: terra bellissima e selvaggia, dal mare incantevole! Sin da piccola l’ho sempre amata e ho avuto la fortuna di non abituarmi mai ai suoi panorami, di meravigliarmi continuamente di fronte allo spettacolo esibito con tanta generosità dalla natura. Anche più tardi, quando sono cresciuta ed ho abitato fuori dall’isola, il solo loro ricordo mi aiutava a sentirmi meglio . Così Marisa Sechi. Bruna, esile e vivacissima, trent’anni da poco compiuti e una già valida esperienza in campo sociale come formatrice professionale. Sono la quarta ed ultima figlia di una famiglia cristiana – racconta -, praticante e profondamente unita, che mi ha educata in modo sano e senza fronzoli pur lasciando che il mio carattere fantasioso, pieno di vivacità e di allegria, si esprimesse liberamente. Noi sardi, proprio come la nostra terra, conviviamo a volte con atteggiamenti di grande apertura, lealtà e ospitalità, e – per contrasto – con retaggi culturali ancestrali che forse attingiamo senza accorgerci dall’ambiente. Ma a casa mia l’apertura al prossimo è sempre stata per tutti la prima norma. C’era un via vai continuo di amici, conoscenti o persone le più varie, spesso in difficoltà per situazioni insolite e intricate: dall’artista dell’est europeo, ora affermato pittore, fuggito dalla dittatura del suo paese ed aiutato a trovare lavoro in Italia, all’accoglienza di alcuni bambini della Bielorussia che necessitavano dell’aria salubre del mare; dalla giornalista croata, testimone delle violenze e degli stupri di massa perpretati nel suo paese durante la guerra degli anni Novanta, alla concretizzazione, con gli amici della Caritas, di un voluminoso Tir carico di aiuti umanitari per Zagabria. Ma, nonostante l’amore per la sua terra e la sua famiglia, viene presto per Marisa il tempo di la- sciarle entrambe per realizzare i progetti di studio per i quali si sente portata. A 19 anni parte così per Milano, dove frequenterà la facoltà di Scienze dell’educazione alla Cattolica. Con altri giovani della facoltà abbiamo dato l’avvio ad un gruppo che, oltre ad un lavoro di sensibilizzazione e formazione a problematiche sociali, svolgeva attività di volontariato nelle fasce più emarginate della città: alfabetizzazione nei campi nomadi, aiuti a ragazzi di strada o a giovani stranieri con pesanti storie alle spalle… Davanti a me si è subito aperto un mondo nuovo, carico di umiliazioni e di sofferenze, tutte cose che avevo studiato ma con le quali non avevo quasi mai avuto occasione di confrontarmi. Contemporaneamente – prosegue – avevo conosciuto alcuni giovani dei Focolari la cui spiritualità evangelica mi aveva attirata fortemente ed ho incominciato a frequentarli. È iniziato così un periodo intenso e impegnato. Ad un certo punto mi sono accorta che non tutto andava per il verso giusto. Ho dovuto ammettere a me stessa che spesso ciò che facevo era soprattutto per concretizzare i miei progetti, per realizzarmi secondo le mie più nobili aspirazioni, per sentirmi una brava ragazza… Ma era questo che Dio voleva da me? Dio: appunto. Iniziavano molti interrogativi dei quali mi sfuggiva la risposta. La mia fede in Dio incominciava ad esigere risposte personali, non più retaggio dell’ambiente familiare cristiano nel quale ero cresciuta. E questo Dio voleva un rapporto con me, con noi, o era solo una lontana presenza che non potevo negare ma che non aveva molto a che fare con la mia vita e con quella di tanti? A poco a poco anche l’Ideale dell’unità propostomi da quei giovani assumeva contorni sempre più sfumati; in certi momenti mi sembrava solo una ingenua utopia. È stato questo un periodo di profonda inquietudine nel quale più volte mi sono chiesta se per caso non avessi potuto trovare la felicità anche senza questo Dio che mi pareva lontano e nascosto. Forse stavo complicandomi la vita inutilmente, forse lui non mi chiedeva nulla di più di quanto facevo. Perché non godere la mia giovinezza senza tanti problemi? Decisi di provarci. Continuavo ad impegnarmi nel sociale ma spinta stavolta da motivazioni solo laiche. Devo ammettere che lo slancio era minore, ma tenevo duro. Ero sempre più arrabbiata e per oltre un anno smisi di frequentare la chiesa. Mi impegnavo freneticamente in mille cose: i divertimenti come i concerti o le mostre; il mare, con le immersioni subacque per le quali avevo una vera passione, i viaggi e il fidanzato. Ho ripreso infatti in quel periodo i contatti con un ragazzo col quale avevo rotto in passato perché, in quanto non credente, aveva delle convinzioni diverse dalle mie. Devo ammettere però che dentro mi sentivo sempre più appassire. Sperimentavo che ogni cosa bella aveva sempre dei limiti e mi lasciava spesso solo un grande senso di vuoto. Non poteva essere che quel Dio, nella cui realtà nonostante tutto io credevo, per rispettare la mia libertà, mi avesse lasciata libera… libera anche di andare lontano da lui?. Intanto aveva finito il corso all’università e dopo la laurea i suoi le regalarono un viaggio in Australia: Come già più volte nel passato, le bellezze della natura sembrarono lenire o guarire parzialmente le ferite che portavo dentro. Nel frattempo si stava preparando per Marisa qualcosa di nuovo ed interessante. Uno zio, sacerdote e religioso della Congregazione dei Giuseppini, le offre la possibilità di passare un periodo presso di lui e la invita a raggiungerlo in Brasile, nella regione del Paranà dove si trova.Marisa accetta con entusiasmo e parte al più presto. Insegnando italiano ai novizi della congregazione, presterà an- che la sua opera in una vicina comunità di bambini di strada. Sarà un’esperienza dalle tinte forti, ma che la orienterà ad un rapporto con Dio del tutto nuovo. Avrei certamente potuto ricominciare la mia ricerca anche in Italia, ma intuivo che rimanendo lì, fra mille impegni e persone conosciute, sarei stata più distratta. Per questo il soggiorno in Brasile mi è sembrato una chance in più. L’impatto è stato subito violento, ma decisivo. Ogni mattina lavavo e cambiavo una ventina di bambini piccoli, i quali, nonostante si reggessero ancora a malapena sulle gambette, sgomitavano per ricevere una mia carezza o per essere presi in braccio. Non capivo quasi nulla di quello che dicevano ma sentivo che l’amore con cui si cercava di trattarli era essenziale. A volte l’assistenza diventava, per le circostanze, particolarmente impegnativa e delicata e ne sentivo un po’ il peso, ma avevo deciso di resistere. Volevo ritrovare un rapporto con Dio, con Gesù, e non era forse lui che aveva detto: Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me?. Mi sono recata anche nelle favelas ed ho visto cose che non si crederebbero possibili: case colme di marciume, maleodoranti, prive d’acqua e senza neanche un buco che potesse essere considerato un servizio igienico… In mezzo a questa umanità abbandonata, dolorante, offesa, ritrovavo sempre più un contatto con Gesù che, pure lui, sulla croce grida il suo abbandono e mi sembrava di capire tutto in modo nuovo. Forse era questa la mano che Dio mi tendeva per rincontrarmi. L’ho afferrata decidendo, con più coscienza, di ricominciare a fare ogni cosa per lui in ogni prossimo. Mi sono detta: Questa volta non voglio mancare all’appuntamento. Marisa si ferma sei mesi in Brasile, impara alla meglio il portoghese e nel giorno del suo compleanno, cinquenta bambini con le braccia piene di fiori rubati per te le improvvisano una grande festa. Sei mesi da cambiare una vita. Prima di ripartire per l’Italia, nel settembre dello stesso anno, visita un centro dei Focolari nei pressi di San Paolo. Qui sente che ogni remora in lei è caduta, e qualcosa dentro la chiama a gran voce addirittura a dare la sua vita per realizzare la fraternità universale con quell’impegno di amore e di dedizione totalitaria che tutto pospone. Marisa ritorna in Italia proprio l’11 settembre 2001, giorno del crollo delle Torri Gemelle. Quasi un segno ulteriore per lei. Poco dopo inizia a lavorare in un centro per donne di strada che seguono un programma di protezione da parte dello stato, o di altre che hanno chiesto asilo politico. Come si può immaginare l’ambiente non è dei più facili ed il clima fra le ospiti è spesso tesissimo. Ho iniziato ad avere un’attenzione particolare per ognuna, con la costanza di cui ero capace. In particolare ricordo un’ospite incinta, con gravi problemi di salute. Nonostante i medici e le assistenti sociali avessero cercato di convincerla a non farlo, lei continuava a mangiare, cruda, l’erba del giardino, con possibili conseguenze negative anche per il bambino. A prescindere dalla stranezza del gesto, la donna era impermeabile a qualsiasi tentativo di rapporto. Ho pensato di farla contenta: da bambina avevo aiutato mia nonna a cogliere erbe selvatiche e così una sera mi sono messa accanto a lei a raccoglierle, scegliendo però quelle commestibili. Inizialmente si dimostrò stupefatta della mia collaborazione; ma, subito dopo, la vidi illuminarsi e iniziare a parlarmi. Le abbiamo poi cucinate insieme, quelle erbe, eliminando almeno in parte il problema sanitario. Questo rapporto mi ha permesso, in seguito, di convincerla a non abortire. L’appuntamento era già stato fissato ma, aiutata a resistere alle continue insistenze e pressioni che subiva dall’esterno, ce l’ha fatta: il bambino era salvo.

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