Finita l’era Marchionne, passaggio d’epoca per Fca
L’inatteso e improvviso peggioramento delle condizioni di salute di Sergio Marchionne, e la nomina sul campo del successore Mike Manley alla carica di amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles, hanno rimesso al centro del dibattito politico la vicenda Fiat, ora appunto Fca, il grande gruppo industriale che ha segnato, in tanti modi, la storia del nostro Paese. Il manager italo-canadese ha raggiunto il vertice delle società del gruppo controllato dagli Agnelli fino a diventare vicepresidente della Exor, la cassaforte di famiglia con sede ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, e raggio d’azione mondiale.
L’umana vicinanza a Marchionne si accompagna alla constatazione della fragilità della condizione umana, che colpisce anche chi apparentemente ne sembra indenne. A quanto pare, possono fare ben poco per lui, anche nella prestigiosa struttura ospedaliera che lo accoglie in Svizzera, Paese di ultima residenza dopo un viaggio che lo ha visto partire, a 14 anni, per il Canada dal natio Abruzzo.
Le vite celebri sono di dominio comune. Viene spesso citato, infatti, il padre Concezio Marchionne, già maresciallo dei carabinieri, che decise di fare questa scelta antica di emigrazione senza essere spinto dalla stretta necessità. Un dettaglio biografico che si continua a ripetere, probabilmente per dare, del supermanager giunto nel 2004 con l’elicottero al Lingotto di Torino in stato fallimentare, un’immagine familiare e rassicurante davanti alle enormi sfide della competizione globalizzata che minaccia, in primo luogo, il destino e la vita stessa dei lavoratori.
E il discorso programmatico del 2007 di Marchionne all’Unione industriale di Torino rispondeva all’attesa di uno sguardo nuovo da parte del modo imprenditoriale. In quella sede giunse a dire cose insolite e cioè che « il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento ( del prodotto auto, ndr) e dunque è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi», per aggiungere che «quando si perdono 3 milioni di euro al giorno, come succedeva fino a due anni fa, e uno pensa che sia colpa degli operai vuol dire che ha saltato qualche ponte sulla sua strada. Questi sono metodi che forse possono andar bene nel sistema anglosassone, ma che da noi non funzionano».
Dopo pochi anni la prospettiva ha registrato un drastico cambio di passo fino ad arrivare alla inconcepibile uscita della Fiat dallo stesso sistema delle imprese di Confindustria, storicamente legata all’azienda automobilistica torinese. Marchionne proviene da studi filosofici prima ancora che giuridici e finanziari. Ha coniato l’espressione del “dopo Cristo” per dire che ci troviamo in un passaggio storico di carattere epocale, che ha coinciso con la grande crisi che ha colpito la parte occidentale del mondo.
Emblematico il testo del suo discorso, tradizionalmente inframezzato da immagini , fortemente applaudito, al meeting di Rimini del 2010, con citazioni di Hegel e Machiavelli, nel pieno dello scontro aperto con una parte del sindacato refrattaria ad accettare le condizioni unilaterali di organizzazione del lavoro, pena lo spostamento dell’attività in altri siti. L’esempio della chiusura dello stabilimento siciliano di Termini imerese, a favore di quello incentivato in Serbia, serviva come monito, ma la vera consacrazione per Marchionne è arrivata con l’acquisizione della statunitense Chrysler, ormai prefallita, grazie all’intervento dell’allora presidente Obama.
Una scelta che ha finito per spostare inevitabilmente il baricentro decisionale oltre Atlantico, anche se la sede del gruppo Fiat Chrysler Automobiles è rimasta in Europa: in Olanda quella legale e nel Regno Unito quella fiscale. Un vero successo per gli azionisti, come riporta Vito Lops sul sito de Il Sole 24 ore, perché «oggi Fca vale almeno 10 volte quanto valeva la Fiat presa in mano 14 anni dal 66enne Marchionne. Da una perdita di 1,5 miliardi il bilancio si è ribaltato: il 2017 si è chiuso con un utile netto di 3,5 miliardi, raddoppiato rispetto al 2016». Lo stesso manager di origini abruzzesi ha investito nei titoli societari per un capitale stimato di 800 milioni di euro.
Il discorso si fa più complesso sul futuro degli stabilimenti italiani che restano legati alle vicende di fusioni o acquisizioni societarie, date sempre per imminenti per motivi di sopravvivenza sul mercato mondiale, e alla recente scelta di puntare sulla produzione ibrida e la dismissione dei motori diesel per motivi ecologici. Il nuovo piano industriale 2018-2022, illustrato lo scorso primo giugno, annuncia l’investimento di 9 miliardi di euro, sui 45 in totale, per l’elettrificazione dei motori e la necessità di un piano di conversione produttiva che genera, sempre, attese e timori per le maestranze coinvolte che chiedono di poter avere nuovi modelli da produrre. Ad esempio, nello stabilimento napoletano di Pomigliano d’Arco – dove si è consumato lo scontro emblematico tra la Fiat e parte del sindacato e la spaccatura traumatica tra gli stessi rappresentati dei lavoratori – la produzione della Panda è annunciata in scadenza per il 2022, quando ritornerà in Polonia. Da una parte si registra l’ennesima solitaria lotta degli operai trasferiti al polo logistico di Nola, il silenzio finora della Fiom Cgil e la forte rivendicazione del ruolo centrale della Fim Cisl di Marco Bentivogli, autore, tra l’altro, con l’ex ministro Calenda di un vero e proprio manifesto di politica economica.
Nei commenti sul forzato passaggio di consegne da parte di Marchionne, si riproducono le questioni irrisolte sulle politiche industriali che un Paese può affrontare con lungimiranza senza accontentarsi del ruolo di rendersi attrattivo per capitali gestiti secondo strategie globali che non può controllare. Non si può non tener presente, in questi momenti, ciò che disse, nel 1996, a Tiziano Terzani l’erede designato della famiglia Agnelli, Giovanni junior, figlio di Umberto, morto poi prematuramente nel 1997: «Non posso accettare che l’ultimo scopo dell’ industria sia quello di far soldi. Fare profitti è importante perché garantisce il futuro, però sono convinto che il ruolo dell’industria sia anche quello di migliorare la società, di aiutare le persone mettendo a loro disposizione prodotti e servizi che migliorino la qualità della loro vita». Giovanni il giovane citava Adriano Olivetti, in pratica il modello alternativo alla dinastia sabauda di appartenenza, come esempio da seguire. Non come storia passata, ma quale sguardo sul futuro proprio del difficile passaggio d’epoca che stiamo vivendo.