Fine vita, l’umanità in gioco
Posti in piedi e grande partecipazione nell’aula magna del centro congressi della Cei per il convegno dell’11 settembre su “Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?” organizzato da una rete di quasi 80 associazioni cattoliche e movimenti ecclesiali alla presenza del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinal Bassetti, che è intervenuto con un puntuale e approfondito discorso, pubblicato integralmente su Città Nuova. Giuristi, medici, familiari di persone che vivono condizioni di disabilità gravissime hanno preso la parola per sviscerare il tema e trarre una riflessione condivisa da presentare ai parlamentari, alcuni dei quali presenti.
L’occasione immediata dell’incontro è l’avvicinarsi del 24 settembre prossimo, giorno in cui la Corte Costituzionale emetterà una sentenza sulla depenalizzazione del reato di istigazione al suicidio (art. 580 del codice penale) in situazioni particolari di gravissima sofferenza psicofisica.
Il pronunciamento è una risposta al processo a carico di Marco Cappato (noto rappresentante del Partito Radicale e dell’Associazione Luca Coscioni) che si è autodenunciato per aver accompagnato, nel 2017, Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo) in una clinica svizzera per realizzare il suo desiderio di morire, dopo che, a causa di un incidente, era rimasto tetraplegico.
Il fine vita
Un tema dalle implicazioni drammatiche e decisive per ogni essere umano. La fase terminale della vita è un mistero per ciascuno di noi e il come la si vive è un po’ lo specchio del proprio vissuto, dei valori che hanno sostenuto l’esistenza. Un momento di solitudine profonda ed estrema perché rappresenta il compimento del proprio itinerario terreno; si sperimenta una fragilità mai provata prima, con la perdita dell’autonomia e la dipendenza da altri che può rendere ancora più penosa una situazione già drammatica a cui si accompagna la paura di soffrire che, non di rado, è il sentimento prevalente.
Farsi carico di questi sentimenti ed emozioni è delicatissimo, ed è necessario porsi con un atteggiamento di estremo rispetto verso chi si trovi a vivere questa fase della propria vita.
La famiglia può sostenere la persona con il suo affetto, partecipazione e vicinanza; l’equipe medica e tutto il personale sanitario che si prendono cura del soggetto devono rispettare alcuni criteri irrinunciabili: la competenza professionale, prima di tutto, l’accesso alle terapie ordinarie, straordinarie e alle cure palliative, ma soprattutto la capacità empatica di ascoltare il malato per raccogliere il suo vissuto e la sofferenza fisica e psichica che vanno trattate adeguatamente.
L’alleanza terapeutica, importante per ogni rapporto medico paziente, è fondamentale nel fine vita, momento dove la terapia non ha solo l’obiettivo della guarigione e della cura, ma si focalizza sul trattamento dei sintomi più gravosi (la gestione del dolore su tutto) e assume la dimensione della cura palliativa che necessita di ascolto caldo, di vicinanza costante, di gestione competente dei sintomi più difficili da sopportare.
In questa relazione costante ed indispensabile si deve fare esercizio di discernimento quando è necessario decidere se sospendere i trattamenti per non incorrere nel rischio dell’accanimento terapeutico; ma anche in quello, non meno grave, dell’abbandono.
Non bisogna dimenticare, poi, anche tutte le sofferenze psichiche, prima fra tutte la depressione che stanno aumentando vertiginosamente nel mondo e che si accompagnano ad un aumento costante del numero dei suicidi, e di richieste di suicidio assistito, segno di un male di vivere, spesso non compreso.
Suicidio assistito e umanità
Al di là delle sofferenze però, l’eutanasia o il suicidio assistito non rispondono a criteri di umanità, non è così che si aiuta la persona, né si rende la morte più accettabile anche se apparentemente la si sceglie. L’autodeterminazione, infatti, non può essere mai assoluta, ma deve essere declinata in un contesto relazionale concreto.
La natura relazionale della persona si manifesta ben prima che ciascuno di noi venga al mondo. La relazione rispettosa dell’altro richiede un ascolto profondo, capace di proporre soluzioni competenti in scienza e coscienza.
Per realizzare ciò è indispensabile che la coscienza del medico, sostenuta dalla sua competenza e deontologia professionale, e dai suoi valori di riferimento, si interfacci con il consenso del paziente ai trattamenti o con il suo rifiuto.
La politica in questo ambito ha il compito fondamentale di assicurare ad ogni cittadino l’accesso alle terapie in generale ed alle cure palliative in particolare.
In Italia siamo ancora bene lontani dal realizzare ciò, a causa di una disomogenea distribuzione territoriale, del non raggiungimento di un comparabile livello di qualità degli hospice e di una non adeguata ed efficace formazione psicologica dei medici e del personale sanitario, che li renda capaci di essere presenti accanto al letto del paziente anche quando le terapie ordinarie si siano dimostrate ormai inefficaci.
L’appello finale
L’incontro presso la Cei si è concluso con la pubblicazione da parte di tutte le associazioni di un appello ai politici perché il Parlamento si riappropri del suo ruolo di legislatore, consentendo un dialogo a 360° con associazioni, cittadini, famiglie. E perché il Servizio sanitario nazionale sia in grado di erogare terapie e assistenza capaci di alleviare le sofferenze del fine vita, accompagnandolo.
È indispensabile una crescita di umanità di tutti nel rispetto di un momento fondamentale per la vita di ciascuno. Ciò che necessita è la riscoperta del legame sociale che ci metta al riparo dall’individualismo competitivo che crea la “cultura dello scarto” ed esaspera l’autodeterminazione del soggetto, per farci risperimentare il calore accogliente della comunità dove è più umano nascere ed anche morire.