Fine settimana nelle sale

Tra i film in uscita, "Romanzo di una strage" di Marco Tullio Giordana, pellicola attesa e discussa su una pagina drammatica della nostra storia
Romanzo di una strage

Se qualcuno ha voglia di divertirsi a spese dell’Italietta contemporanea, senza eccessi di volgarità e con siparietti un po’ d’altri tempi, ma efficaci, affidati ad attori supernoti (Diego Abatantuono, sempre più largo e simpatico, Maurizio Mattioli, immarcescibile romano, Christian De Sica, gigioneggiante, Paolo Conticini, più toscano che mai, e Lino Banfi finalmente libero da “nonno Libero”, Salemme il notaio napoletano) questo qualcuno si veda Buona Giornata, di Carlo Vanzina.
 
Buona giornata, si fa per dire. Perché le cose non vanno tanto bene. Banfi è l’onorevole in odore di carcere che però se la svigna, Mattioli l’imprenditore nei guai con le tasse, De Sica il principotto romano volgarotto, Conticini il malato di calcio, eccetera: con loro, le rispettive mogli o fidanzate (Chiara Francini, Tosca D’Aquino, e così via). L’Italietta nel film non è né bella né buona, ragazzini viziati e prepotenti, politici corrotti, tifosi rimbecilliti… Siamo proprio messi male! Ma non era una commedia? Si ride, è vero, ma non troppo. Quel tanto che basta. Di questi tempi, è una fortuna.
 
Umorismo molto francese in Il mio miglior incubo, dove Anne Fontaine convince Isabelle Huppert a cimentarsi almeno una volta con un ruolo leggero. Ci riesce, perché l’attrice, algida borghese parigina, frustrata e insopportabile, con un figlio piccolo genio, capisce che il proletario Benoit Poelvoorde è simpatico e cordiale, e si fa amare. Ma prima i due si guardano in cagnesco. Per chi vuole una Huppert meno arcigna e “impegnata” del solito e un pizzico di comicità francese.
 
Ci voleva l’esempio di Greenaway per far sì che anche un regista grande come Lech Majewski si decidesse a “vivificare” grazie al 3D la Salita al Calvario di Bruegel, ossia il celebre dipinto del maestro fiammingo. Che ne I colori della Passione – questo il titolo del film – diventa animato da 500 attori, ambientato nelle Fiandre del Seicento perseguitate dagli spagnoli, attualizzando quindi il dramma sacro in una sacralità laica della storia (passata, ma anche presente). Visionario, potente, con ricchissime sfumature di luci e colori e un grande Rutger Hauer che impersona il pittore, e una altrettanto grande Charlotte Rampling come la madre, il film è assolutamente da non perdere. Vera opera d’arte nell’arte, metafora del presente e godimento per gli occhi e la mente.
 
E siamo al film forse più atteso, ossia Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Diciamolo subito. Ci vuole coraggio a riaffondare il coltello nella piaga della nostra storia, quella degli anni Sessanta-Settanta densa di omicidi, stragi, lotte, pericolo di colpi di Stato: troppo facilmente scordata dalla generazione che le era contemporanea e ignota ai giovani d’oggi. Perciò il film di Giordana, checché se ne pensi, è atto coraggioso e dovuto alle nuove generazioni. Il diluvio di commenti di segno contraddittorio, per quanto legittimo, fa comprendere ancora una volta due aspetti: il primo, che la ferita brucia nelle coscienze obnubilate dal tempo e che forse si risvegliano; il secondo, che l’Italia vive del consueto provincialismo ideologico, per cui è chiesto a un regista di fare lo storico (di parte), senza considerare che egli invece è un artista che cerca solo di dare una sua, per quanto opinabile, visione. Di più: l’obiettività in storia non esiste, anche se è legittimo e necessario avvicinarvisi.
 
Passiamo al film. Che è un polittico scarno, notturno, caravaggesco e perciò inquietante. Apparentemente glaciale e freddo, con la freddezza dei puri fatti (non tutti), una fotografia drammatica che inchioda le scene una all’altra e in faccia allo spettatore. Non si sussulta in questo film che penetra come una lama, i cui effetti si avvertono dopo la proiezione.
 
Mirabile il cast. Mastandrea, trasformato nel commissario Calabresi dal volto umano, supera sé stesso; Michel Cescon è Licia Pinelli, di notevole intensità, accanto al marito Giuseppe, un Favino timido e quasi onirico, in più un grande Giorgio Colangeli. Stupefacente l’Aldo Moro di Fabrizio Gifuni, in una grandissima performance. Il mondo veneto sornione e lucido ha trovato una precisa caratterizzazione nel folle Denis Fasolo (Ventura) e nell’implacabile, glaciale Giorgio Marchesi (Freda), forse nel suo ruolo migliore.
 
Ma tutto il cast è stato diretto con grande abilità e cura (forse poco credibile Laura Chiatti come Gemma Calabresi). Capolavoro? Giordana scava alla ricerca della verità ancora nascosta secondo lui, omette certo alcune figure (le responsabilità di Lotta continua), sintetizza per amor di concisione. Soprattutto mette in risalto il senso di mistero sulla verità della nostra classe politica che è forse il lato migliore del film e sul fatto che l’Italia è ancora raggelata – di qui lo stile terreo del lavoro – da troppi silenzi. Il silenzio è infatti una delle voci più forti del film, rotto dal boato dell’esplosione che, prima che nella banca milanese a Piazza Fontana, il regista mostra nel tram con straordinario effetto drammatico.
 
Siamo ancora sotto choc, involontariamente, dopo questa esplosione? Giordana ha raccontato e riflettuto. Per non dimenticare e scavare ancora. È forse questo il merito maggiore di un film dai tratti di tragedia greca. Che non si vorrebbe ineluttabile.
 

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