Fine del populismo?
La recente crisi politica, la cui gravità sembrava, in certi momenti, potesse portare alle elezioni anticipate, si è risolta con la proposta di un governo sostanzialmente identico al precedente; che esso possa apportare le sostanziali correzioni di rotta richieste all’interno della stessa Casa delle libertà all’indomani della sconfitta elettorale, appare molto improbabile. L’attuale governo sembra fatto per prendere tempo, ma non molto: fra un anno si vota. Il centro-destra ha meno di 400 giorni per inventare un progetto politico capace di invertire la tendenza elettorale degli ultimi quattro anni. L’elemento centrale della crisi ha riguardato la figura e la leadership di Silvio Berlusconi. Il suo ruolo nella storia recente dell’Italia è di tutto rispetto. Nel 1994, creò dal niente un partito nuovo facendo un appello di popolo. Forza Italia nacque strutturandosi, nei suoi quadri dirigenti, sul modello di un organigramma aziendale. Per questo i suoi nemici di sempre lo hanno definito, fin dall’inizio, un partito-azienda, sorretto dal supporto televisivo; certamente, senza le televisioni non sarebbe potuto nascere, privo com’era di tradizione e di base territoriale. Ma le televisioni, pur necessarie, non sarebbero state sufficienti: Berlusconi seppe rispondere ad esigenze realmente presenti nel paese. Anzitutto quella di dare una casa alla grande maggioranza dei voti democristiani che, dopo il crollo della Dc, chiedevano una collocazione moderata. Inoltre, la discesa in campo di Berlusconi ha trasformato l’intera area politica di riferimento: ha permesso lo sviluppo, nel centro-destra, di una formazione di ispirazione cristiana che, da sola, difficilmente sarebbe sopravvissuta; ha sdoganato la destra, permettendo ad una personalità qual è Fini di emergere e di trasformare il vecchio Msi nell’attuale Alleanza naziona- le. Altro aspetto rilevante, ha saputo contenere la Lega di Bossi, un partito che, per la sua cultura secessionista, costituiva una formazione tecnicamente definibile come anti-sistema: Berlusconi ha costruito le condizioni per trasformarla in forza di governo e per riuscire a tradurre la secessione in federalismo, cioè in un linguaggio costituzionalmente accettabile; si può non condividere la sostanza della riforma leghista, ma rimane dentro le regole della democrazia. Il populismo, di per sé – e dunque anche quello berlusconiano – non è affatto un fenomeno politico conservatore; al suo nascere, generalmente – non mancano gli esempi storici in diversi paesi – ha carattere innovatore: riesce a scompaginare gli assetti politici precedenti e a coagulare una maggioranza popolare intorno alla figura di un leader che indica un obiettivo nazionale sentito e condiviso. È ciò che, nel suo modo, ha fatto Berlusconi: ha lanciato l’idea di introdurre in Italia alcune riforme liberali – di regole e di contenuto – delle quali il paese aveva effettivamente bisogno, presentando sé stesso come l’incarnazione – in parte attuata, in parte profetica – di tale progetto: non un politico di professione, ma un imprenditore concreto, spregiudicato se occorre, che parla direttamente alla gente, scavalcando – appena può – quei tortuosi passaggi che però, almeno in parte, hanno diritto al nome di democrazia. Il tentativo berlusconiano ha avuto il legittimo e democratico appoggio della maggioranza. Il problema, oggi, è che questa spinta riformatrice, comunque si vogliano valutare i suoi risultati effettivi, non raggiunge più gli elettori. Se le idee che Berlusconi ha lanciato continuano ad essere valide, bisogna che il centro-destra trovi un modo diverso di proporle e realizzarle. La Casa delle libertà si è retta finora su quella che potremmo definire, grosso modo, una doppia alleanza: nel Nord con la Lega, nel Sud con An e Udc. Trovare la sintesi tra queste due alleanze – portatrici di culture politiche e di esigenze territoriali diverse – è sempre stata opera difficile, e spiega la prassi delle decisioni all’ultimo minuto, le mediazioni in extremis, l’incertezza sulle decisioni, a dispetto del programma della coalizione, che dovrebbe tracciare una via certa e riconoscibile all’operato del governo. La figura di Berlusconi ha sempre fatto da cerniera; non solo per le doti personali del premier, ma anche per la forza del suo partito, dalla quale i partiti minori non possono prescindere. Ma ora, con il voto sfavorevole delle elezioni regionali, che ha messo in evidenza proprio la crisi di Forza Italia, le divergenze riprendono il sopravvento. E Berlusconi e il suo partito cominciano ad essere visti non come l’anello forte, ma, paradossalmente, quello debole del centrodestra. Una debolezza che riguarda, anzitutto, il partito. Forza Italia è il partito del premier, dove il del indica non l’appartenenza di Berlusconi ad un partito, ma l’identificazione totale del partito con colui che lo ha fondato. Alla figura del leader nazionale non corrispondono figure analoghe a livello locale; molte delle maggiori personalità della Casa delle libertà, a livello regionale, hanno una storia o un’origine politica diversa da Forza Italia, o appartengono ad altri partiti della coalizione. Forza Italia ha sempre detto di non voler diventare un partito tradizionale; ma, con questo, ha rinunciato ai vantaggi dei partiti tradizionali, profondamente radicati nel territorio, senza però arrivare a proporre un modello nuovo di partito. Che cosa è, in realtà, Forza Italia? In secondo luogo, la debolezza riguarda la persona stessa di Berlusconi, che si porta dietro un conflitto di interessi mai realmente risolto, che tocca non solo la proprietà delle televisioni, ma anche le sue vicende giudiziarie: al di là dei contenuti della legge di riforma della giustizia, l’azione di un governo che avesse posto un freno al potere straripante che la magistratura aveva acquisito, avrebbe avuto ben altra accoglienza se il premier non fosse stato coinvolto, attraverso le proprie aziende, in fondati procedimenti giudiziari. Oggi, quella Casa delle libertà che senza Berlusconi non ci sarebbe, con lui non può andare avanti; e non è detto che, senza di lui, ci riesca. La scommessa è forse, ora, quella di capire se essa sarà in grado di darsi una unità attorno ad un programma condiviso, facendo a meno del padre fondatore, camminando sulle proprie gambe, diventando adulta. La sostituzione di Berlusconi può avvenire bene (se anche lui vorrà contribuirvi), oppure male, se messa in atto attraverso il lavorìo logorante degli alleati. Alleati che, da una parte, dovrebbero baciare dove passa Berlusconi, perché ha loro permesso di diventare quello che sono oggi; ma, d’altra parte, forse devono liberarsi di lui se vogliono proseguire. Alle semplificazioni trainanti del populismo si deve ora sostituire una riflessione più profonda e articolata, che non può non essere frutto dell’incontro leale fra esigenze diverse, ma componibili nel bene comune. In altre parole, può cadere il Cavaliere, ma bisogna continuare a dare da mangiare al cavallo. C’è poi una terza debolezza, di cultura politica: sotto la duplice alleanza presente nella coalizione, si nascondono culture diverse, che Berlusconi ha tenuto insieme grazie alla sua forza elettorale, non grazie ad una sua sintesi culturale superiore. La questione culturale è il vero e proprio macigno che grava sulla coalizione. Davanti ai risultati delle elezioni, Fini disse a chiare lettere che è necessario abbandonare l’eccesso ideologico: non si può continuare a fare campagne sull’anticomunismo e sull’antifascismo. E qui si tocca il problema che riguarda entrambe le coalizioni: l’incapacità dimostrata, finora, da ciascuna, di creare un programma che sia effettivamente una sintesi vera fra culture politiche che sono diverse e che tali rimarranno. L’ipotesi ventilata di una federazione del centro-destra, o addirittura di un partito unico (e il tentativo simile in atto a sinistra), non si può realizzare senza sviluppare, contemporaneamente, un analogo processo che costruisca una nuova cultura politica: senza di essa, ogni programma sarà sempre fragile. È necessario che siano i partiti ad esprimere le diverse culture politiche? E, di conseguenza, è necessario che sopravvivano molti partiti, a destra come a sinistra, per rappresentarle? Fu questa l’esperienza italiana del dopoguerra, caratterizzata dalla presenza di partiti fortemente ideologici, grandi e piccoli, nei quali cultura e politica coincidevano; oggi essi sono tutti scomparsi. Il dramma sta nel fatto che, con essi, sono scomparse in una certa misura anche le culture politiche. I progetti esistenti, di dare vita a due sole grandi forze politiche antagoniste, se basati sul mero pragmatismo elettorale, rischiano di ostacolare ulteriormente la ricerca di nuove, attuali, culture politiche, capaci di dare un fondamento solido ai programmi. È dunque legittimo che si cerchi di creare poche grandi formazioni politiche, adeguate a competere nel sistema elettorale maggioritario, purché la rappresentanza delle diverse culture trovi altre forme di espressione, non più coincidenti con i partiti, ma efficaci, quali fondazioni, centri di studio, di ricerca e di formazione: palestre di pensiero capaci di acquisire il rispetto dell’opinione pubblica e di alimentare la riflessione e l’azione politiche. Ci si può aspettare che tutto questo venga attuato dai partiti politici esistenti? Certamente no: l’elaborazione di una cultura è un fenomeno ricco e complesso, al quale la politica dà un contributo, ma che ha le sue radici nella società. E la nostra società abbonda di tradizioni vive, di esperienze innovative, di valori vissuti nel quotidiano, capaci di generare idee. Interpretare questi fenomeni, trasformarli in pensiero, metterli in dialogo con le domande che la politica pone, è oggi un compito che diviene sempre più urgente.