Filadelfia, dove nacque il federalismo
Il viaggio nel lessico democratico ci porta oltreoceano: in Pennsylvania, uno degli Stati chiave dove si decidono le elezioni presidenziali americane, e precisamente a Filadelfia, città in cui è sorta l’architettura della più grande democrazia del mondo.
Il grande giorno è il 4 luglio 1776 − da allora iconica festa nazionale –, quando viene firmata la Dichiarazione di Indipendenza, con cui le 13 colonie britanniche si mettono in proprio. Certo, non sarà una passeggiata, l’esercito di sua maestà farà di tutto per dissuadere i ribelli.
Tuttavia le ex colonie non desistono e nell’arco di 15 anni, con prove, errori e riscritture della Costituzione, gli Stati Uniti definiscono il proprio assetto istituzionale, marcatamente federalista: in cambio della nascita di un’autorità federale con competenza esclusiva su commercio, tasse doganali e guerra, gli Stati del nord avrebbero tollerato la schiavitù negli Stati del sud.
Il percorso passa inizialmente per una Confederazione – passo necessario per staccarsi dalla Madrepatria – dove gli Stati possono sperimentare singolarmente diverse formule costituzionali e di governo, potendone valutare vantaggi e svantaggi.
Provano però anche il caos delle tariffe doganali “sovraniste”, diremmo oggi, insieme alla debolezza dei singoli eserciti. È questo percorso a preparare le competenze e il consenso per il passaggio successivo alla suddivisione.
Per la prima volta nella storia appare un sistema di co-sovranità che ripartisce i poteri tra un forte Stato centrale, con poche competenze, e gli Stati federali, che di competenze ne hanno molte.
Come osserva il nostro mentore Yves Mény, la Rivoluzione Americana scommette l’applicazione della democrazia su un territorio molto vasto, superando sia l’idea greca – e più tardi di Rousseau – che fosse appannaggio esclusivo delle città o dei piccoli territori, sia l’idea romana – poi sposata da Montesquieu – che grandi territori fossero gestibili solo da monarchie o dispotismi.
Dei 12 emendamenti presentati da James Madison nel 1791, solo 10 vengono approvati e confluiscono nel Bill of Rights (Carta dei Diritti), la cui ratifica avviene a maggioranza qualificata e non all’unanimità.
È quest’ultimo un passaggio chiave, al cuore del “Philadelfia’s moment”, che forse con qualche forzatura esprime il pragmatismo americano, e la sua fortuna. Di converso la regola dell’unanimità, due secoli dopo, continua ad azzoppare il percorso dell’Unione Europea.
Estremamente interessante e ricco è il dibattito che si è sviluppato nei due anni intercorsi fra l’adozione e la ratifica della Costituzione: 3 grandi menti, Hamilton, Madison e Jay, hanno prodotto più di 80 articoli, i famosi “Federalist Papers”, nei quali hanno sviscerato gli argomenti politici e giuridici a favore dell’assetto federalista, senza esimersi dall’affrontarne le questioni divisive, quali ad esempio la formula di un governo centrale. Un patrimonio di letteratura democratica, che merita di essere conosciuto anche dalle nuove generazioni, almeno tanto quanto il musical di successo su Hamilton che è sold-out a Broadway dal 2015.
Che bilancio possiamo trarre dal “Philadelfia’s moment”?
Il modello federale ha avuto un’ampia diffusione nei grandi Paesi del Commonwealth (Australia, Canada, India), in Europa (Svizzera, Germania e Austria), in America Latina (Brasile, Venezuela, Argentina, Messico) e in Africa (Nigeria), e ha ispirato anche il percorso dell’Unione Europea, senza ancora trovare la sua compiutezza politica – ne approfondiremo la questione nella tappa finale a Bruxelles! –.
In Italia il federalismo ha avuto molti illustri sostenitori, ancora prima della nascita dello Stato unitario fra il ‘600 e il ‘700: era federalista Antonio Genovesi, titolare della prima cattedra di economia civile a Napoli, come pure, nell’800, Vincenzo Gioberti con il suo progetto “neoguelfo”, che prevedeva una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa; il percorso italiano ha visto il Regno di Sardegna, dal 1860, aggregare in un unico Stato i diversi territori regionali, in un centralismo successivamente esasperato nel periodo fascista, e continuato nel dopoguerra per una sostanziale visione condivisa fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista.
Ma come un fiume carsico, il federalismo italiano è riemerso all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, con le idee di Gianfranco Miglio, considerato l’ideologo della Lega Nord, e con Bruno Trentin sindacalista comunista, per arrivare a dominare il dibattito pubblico italiano negli anni ’90, fino ad aprire la strada alla riforma del titolo V della Costituzione. Una riforma che dal 2001, modificando l’assetto del governo territoriale, rappresenta un passo chiave nell’attuazione del federalismo e prevede nuove competenze locali in base al principio di sussidiarietà.
La recente legge sull’autonomia differenziata, possibile ulteriore passo federalista, segnala la difficoltà di tenere insieme i livelli locali di governo con la coesione fra diverse aree del Paese (e, volendo, con la solidarietà tra le stesse): è questo il crinale, complesso e sfidante, estremamente delicato, su cui si gioca il contributo del processo federalista. D’altro canto, la tensione nel tenere insieme i diversi, assicurandone un’unità, accompagna il tema del federalismo fin dalla sua città d’origine, Filadelfia, che in greco significa “amore per i fratelli”.
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