Figli, di Mattia Torre

Una commedia commedia divertente e insieme angosciante, venata di sfumature surreali e fumettistiche, eppure decisamente impregnata di realismo

Ci ricorda una cosa, Figli, il film diretto da Giuseppe Bonito e scritto da Mattia Torre, scomparso a soli 47 anni lo scorso luglio, dopo una lunga malattia.

Ci ricorda che il mestiere di genitori è impegnativo, faticoso, che obbliga a sacrifici e rinunce. Che stravolge la vita, la fa sterzare bruscamente, la capovolge, può renderla assai dura, oggi, in una società scollata e rapace come la nostra, poco interessata al bene comune e alla cura di se stessa, per niente in empatia con le famiglie.

Ci mostra anche, però, questa commedia divertente e insieme angosciante, venata di sfumature surreali e fumettistiche, eppure decisamente impregnata di realismo, quali siano i segreti, i fondamenti, per rendere sostenibile la grande avventura del mettere al mondo nuova vita, quali siano gli ingredienti per far respirare l’enorme bellezza che c’è nel fare figli, la meraviglia che c’è nel cercare di crescerli con amore, intelligenza e passione.

Questo film, ispirato al monologo I figli ti invecchiano dello stesso Mattia Torre, poi reso virale dalla partecipazione di Valerio Mastandrea al programma E poi c’è Cattelan, ci parla di cosa fare e soprattutto di cosa non fare affinché il bene che porta con sé la procreazione non rimanga imprigionato nella fatica, non si lasci avvelenare dalle difficoltà, dal sonno arretrato, dalle scorie quotidiane di un Paese in cui «tutti odiano tutti», dalle preoccupazioni e dalla stanchezza che si impossessa di una coppia, specialmente quando i figli diventano due.

Lo mostra attraverso una famiglia comune, non privilegiata ma nemmeno particolarmente svantaggiata, diciamo nella norma in quando a lampante difficoltà, a intensa, quotidiana fatica. Una famiglia paradigmatica, di genitori dinamici e svegli, più adulti che ragazzi, perché – dice il film – padri e madri di venticinque anni in Italia non ce ne sono più, e se l’affermazione non va presa totalmente alla lettera, la realtà ci parla di coppie che nella stragrande maggioranza dei casi fanno figli, in Italia, abbondantemente sopra i trent’anni, forse anche sopra i trentacinque. Il padre si chiama Nicola ed è un bravo Valerio Mastandrea, appunto, mentre la madre è Sara, brava anche Paola Cortellesi.

Vivono a Roma e hanno già una figlia, Anna, di appena sei anni ma con una vita sociale già fitta di impegni spesso costosi. Tutto va, in qualche modo, e si riesce pure ad andare a qualche festa, con la figlia addormentata sotto i cappotti degli invitati. Fino a che nella pancia della mamma si presenta Pietro, e quel fragile, delicato equilibrio a tre salta rapidamente in aria. Gli schemi pazientemente costruiti col tempo si smarriscono davanti ai vagiti, ai rigurgitini, ai risvegli improvvisi e agli scatti di crescita del piccolo, che si associano, con stridore, all’alleggerimento ulteriore del portafoglio e alle crisi della figlia grande, che accusa i genitori di essere «un macello», perché in tre era tutto più semplice.

Sudore, fatica, paura, smarrimento, crisi personali e di coppia, tra una caduta fantozziana in casa e il desiderio di mollare per un attimo la presa, per riassaporare la vita com’era, anche se basta una mezzora senza figli e la nostalgia e la mancanza obbligano a sfogliare le foto dei bambini sul telefonino, e a un rapido ritorno a casa per liberare quella baby sitter che rappresenta solo un piccolo elemento del vasto mondo che rimbomba costantemente attorno a una famiglia con figli piccoli: un girotondo asfissiante di pediatri e farmaci che costano un occhio della testa, di amici/genitori altrettanto stanchi che spesso offrono consigli poco utili, di chat e cene di classe, di nonni distratti e baby sitter imperfette, appunto, perché Josephine – racconta la voce narrante di Nicola/Mastandrea – è bravissima, ama i bambini ed è da questi ricambiata; adora il suo lavoro e prepara pappe gustose.

Ha un solo grande difetto, Josephine: non esiste! E’ un universo credibile, quello raccontato da Mattia Torre e messo in scena con bravura da Giuseppe Bonito, che di Torre è stato assistente alla regia in Boris. E’ un mondo interiore di slanci e buona volontà, di sentimenti profondi e piccolezze e fragilità, nel quale ogni genitore può facilmente riconoscersi e osservare i propri limiti ed errori, ma è anche un mondo esteriore, ovvero il nostro presente, nel quale chiunque, anche chi non ha figli, può ritrovarsi.

È un mondo non facile che Mattia Torre racconta con iperboli comiche dentro le quali abitano precise descrizioni della realtà, e nelle quali l’autore non si limita alla cinica, amara descrizione dei problemi, alla cronaca compiaciuta della bruttezza. Prova a riderne, semmai, e poi, attraverso la crescita di due persone alle prese con una prova non semplice, dice la sua sul come affrontare la grandezza del compito.

Con pudore e leggerezza offre la sua piccola, grande lezione: mostrando la fatica e l’impegno di entrambi i genitori, parla dell’importanza di mettersi nei panni dell’altro e spiega che soltanto accettando la complessità della situazione, trovando a questa le contromisure prima di tutto emotive si può invertire la rotta. Accettare, vivere la prova con una saggezza fatta anche tanto di sorrisi e respiri, di ragionamento. Questo è il primo passo, anche perché, spiega il film attraverso le parole di una pediatra costosa ma anche capace di consigli illuminanti, i nostri figli sono quello che siamo noi, mettono in scena il rapporto tra le loro mamme e i loro papà, si calmano quando i loro genitori si calmano.

Da noi stessi, dice Figli, nasce la bellezza del restare, dal nostro lavorare bene sulle cose piccole, dal fare bene ciò che ci è possibile e chiesto di fare. Con amore, mettendo cura in quello che la vita offre. Imparare a benedire ciò che si ha e la vita, anche se faticosa, potrà essere vissuta meglio, diventare ogni giorno più bella, autoalimentandosi costantemente di serenità.

Questo ci dice in fondo la commedia intelligente di Mattia Torre. Che è, volendo, un po’ il terzo comandamento, e pazienza, allora, se i preti di Figli sono raccontati con eccessiva superficialità e stravaganza. Avveniva già con La linea verticale, la bella serie diretta nel 2018 dallo stesso sceneggiatore e regista. Un piccolo limite di questo film che riesce comunque a raccontare il buono, il vero e l’utile in una società che poco lo conosce.

 

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