Figli di una terra sconosciuta

Nell’anniversario della giornata del ricordo delle vittime delle foibe, riproponiamo un’intervista ad Anna Maria Mori autrice di "Nata in Istria"
Foiba

Nomini l’Istria, e il più delle volte il tuo interlocutore risponde: fascismo, comunismo, persecuzioni, foibe, esodo. Queste pagine della storia dell’Italia sono ancora dolorose e non sempre conosciute approfonditamente. Oggi è il giorno del Ricordo delle vittime delle rappresaglie militari e politiche dei partigiani comunisti del maresciallo Tito, che tra il 1943 e il 1945 procurarono la morte di migliaia di persone dentro le foibe, conche naturali caratteristiche di questo territorio. Ma l’Istria non è questo, o almeno: non è solo questo.

 

Per renderle giustizia, per svelarne anzitutto la bellezza negata, la scrittrice Anna Maria Mori, figlia di questa terra tormentata e perduta, ha intrapreso un viaggio nella memoria e nel cuore che ha prodotto Nata in Istria. Un libro intenso, fatto di odori e sapori, di colori e musiche, di silenzi e voci: quelle dei partiti, dei rimasti e dei defunti, prima di tutto sua madre. Incontro la Mori nella sua casa romana a pochi passi dal parco della Caffarella. Noto subito, fra le altre cose, una vecchia foto dell’Arena di Pola, la sua città natale abbandonata da bambina insieme ad altre migliaia di esuli. Nata in Istria segue un altro libro Bora, dove si racconta l’esodo e l’esilio; esilio non solo dei 350 mila costretti nel 1947 a lasciare la propria terra, ma anche di chi è rimasto lì, in grande isolamento, vedendosi cambiare intorno tutto, dai nomi delle strade e delle città alla lingua, alla stessa storia che si studia a scuola (una storia rivisitata).

Riproponiamo un’intervista già pubblicata sulla rivista Città Nuova.

 

Quale la genesi di questo secondo lavoro?

È un libro maturato a lungo dentro di me e ha richiesto quindici anni di studio. Dopo una vita vissuta mettendo da parte la questione istriana perché volevo affrontarla non solo emotivamente, ma anche con gli strumenti di conoscenza della mia professione. Finalmente, votato alla quasi unanimità dal Parlamento, è arrivato il giorno del ricordo, diventato purtroppo il giorno delle foibe. E ancora una volta questa povera Istria è stata strumentalizzata da destra e da sinistra: due prigioni da cui si deve liberare. Con Nata in Istria ho sentito il dovere morale – e anche il piacere – di far scoprire al resto dell’Italia questa terra al di là dei luoghi comuni: narrandone la geografia, l’antropologia, la preistoria e – pur in estrema sintesi – l’avvicendarsi di dominazioni e culture. Senza tacere le mostruosità compiute dal fascismo (ma cose anche peggiori hanno fatto le popolazioni slave contro di noi, con l’alibi inaccettabile che tutti gli italiani erano fascisti). Ho voluto raccontare in maniera finalmente pacifica quanto invece lì è stato motivo di scontro: la presenza di turchi, polacchi, russi, francesi, slavi, delle popolazioni autoctone, dell’Austria-Ungheria. Ho ascoltato le testimonianze di italiani che vivono lì e di esuli a Trieste.

 

Finché dopo una lunga gestazione, in pochi mesi è venuto alla luce il libro. Quali riscontri ha avuto dai lettori istriani?

Do testimonianze commoventi e drammatiche di questo scontro tra culture in una terra che forse la pace non l’ha conosciuta mai, se non forse sotto l’Impero austroungarico. Il complimento più bello che mi è stato fatto? Aver scritto un libro di pace.

 

Lei ha svolto il suo percorso all’insegna della bellezza della sua terra. Le sembra che chi ha letto il libro abbia colto questo suo intento?

Gli istriani credo che me ne siano stati grati. Ho cercato di restituire loro l’Istria, ma anche di dire agli italiani: voi che identificate l’Istria con le foibe, e poi andate in vacanza in Croazia, per favore cercate di conoscere la storia di questa terra, non usatela solo in maniera consumistica per le sue spiagge stupende o per mangiare gli scampi alla bùsara. L’Istria, questa terra di tutti e di nessuno, è talmente bella e ammaliatrice che non a caso le popolazioni jugoslave l’hanno fortissimamente voluta. Tito ha fatto la guerra con in mente quasi solo questo scopo. Per gli esuli, poi, il senso della perdita dà al loro amore un colore particolare che si mescola con il sentimento dell’ingiustizia patita, secondo me il più irriducibile in un essere umano. Per cinquant’anni siamo stati cancellati dal resto d’Italia e nessuno ha voluto sapere dell’esistenza di 109 campi profughi. E per anni, quando io dicevo di essere nata a Pola, la gente non sapeva dove fosse.

 

Dove cercare le ragioni di quest’ignoranza?

A mio parere ce n’è una di fondo: noi la guerra l’abbiamo persa, e invece col fatto della cobelligeranza, degli alleati, della resistenza, ci siamo raccontati che l’abbiamo vinta. Non è andata così. Tito sedeva al tavolo dei vincitori e abbiamo pagato la sconfitta con quel triangolo di terra, oggi diviso tra Croazia e Slovenia. Per il resto dell’Italia siamo finiti come lo sporco sotto il tappeto.

 

Un’ultima domanda: cosa pensano i suoi figli di tutta questa storia?

Mentre tanti italiani rimasti in Istria mi dicono: i nostri figli e nipoti non ne vogliono più sapere, non ne possono più, i miei figli, forse proprio perché non glielo ho imposto, curiosamente oggi si sentono istriani. E questa è una grande cosa. Per me è diverso l’esilio forzato è qualcosa che ti segna per sempre, ti porta ad una non appartenenza. Non mi sento a casa da nessuna parte. Questo però ha anche un risvolto positivo, mi sento cittadina del mondo.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons