Fidelio e Il ballo in maschera

Libertà di amare. Leonora deve travestirsi da Fidelio per ritrovare il marito Florestano, incarcerato dall’ingiusto Pizarro e vedere coronato l’amore e il senso della giustizia. Amelia ama riamata il re Gustavo ma rimane fedele al marito, amico del re, che muore perdonando all’uccisore. Beethoven e Verdi, il primo ad aprire con l’unica opera di Ludwig la nuova stagione dell’Accademia di Santa Cecilia in Roma, il secondo con il Ballo in maschera al romano teatro dell’Opera
Simone Piazzola nel Capitano Anckarstrom del Ballo in maschera

Fidelio

 

Eseguito nell’edizione del 1813, in due atti, è un lavoro delicato e possente. È il Beethoven che loda la fedeltà coniugale – lui che mai ha potuto godere le gioie della famiglia –, la giustizia, la felicità finale di chi lotta per l’amore e la libertà, che sa cogliere l’intervento della divina provvidenza. Una dimensione etico-religiosa negli anni napoleonici, tipica del Beethoven “eroico”.

La musica è bellissima. Non solo nel celebre “coro dei prigionieri” pervaso da quel clima spirituale che ritroveremo nella IX sinfonia – come lo ritroveremo anche nel finale di quest’opera con le sue ondate crescenti –, ma nei pezzi d’insieme e nelle arie, che si susseguono dopo i dialoghi parlati. Fra tutte quella di Florestano in carcere, all’inizio dell’atto secondo, con quel recitativo “Dio, che notte è qui!”, teso e drammaticamente cupo, eppur ricco di speranza. Beethoven cesella canto e orchestra al limite del possibile: preludendo a Wagner, di fatto cancella la separazione fra recitativo e aria, stabilendo un ininterrotto (quasi) flusso musicale continuo. Una partitura ricchissima di sfumature, perciò difficile da eseguire.

 

Antonio Pappano ci ha messo anima e corpo con una direzione più che appassionata e ha cavato dall’orchestra sonorità splendide in ogni sezione, svettanti acuti di violini e flauti, rombi dei bassi, possenza degli ottoni.

La compagnia di canto è stata molto buona. Personalità come Simon O’ Neill (Florestano), Rachel Willis-Sorensen (Leonore), Gunther Grossbock (Rocco), Amanda Forsythe (Marzelline) e gli altri hanno dato gioia con la perfezione tecnica e la passione. Sempre preparato il coro. Esecuzione trionfale che certo avrebbe fatto felice Beethoven nel trionfo del sacrificio vittorioso per amore. Attuale anche oggi, e da riscoprire, nonostante l’americano David Lang pensi di riscrivere il libretto con un finale diverso, adatto alle coppie attuali. Povero Beethoven così poco compreso, anche oggi.

 

 

Il Ballo in maschera

 

L’opera verdiana, qui presentata nella versione ante-censura, che mai si esegue (l’azione è a Stoccolma anziché a Boston, il re è Gustavo III anziché il conte Riccardo, alcune frasi eliminate come “l’immonda stirpe de’ negri”…) è stato detto il Tristano e Isotta del nostro musicista. Sarà, forse perché storia di un amore impossibile: sospirato, cercato, punito e redento.

Quest’opera unica nel suo genere – che necessita di un cast azzeccato perché è raffinatissima –, vive di un equilibrio delicato: scene leggere e scene drammatiche, lirismo e senso del comico, leggiadria e cupezza. Se Gustavo vive solo per amore – la politica passa in secondo piano, egli è un regnante munifico –, Amelia è combattuta fra lui e il marito, Oscar il paggio è un fanciullo scherzoso, il capitano Anckarstrom (il Renato della tradizione) è la virilità fedele e poi vendicativa.

Ci sono risvolti horror nella figura della maga e oscuri nel gruppo dei congiurati. Tutto sembra svolgersi prevalentemente di notte: così la scena nell’antro della maga irrisa dal re, l’incontro degli amanti nel campo della morte, l’omicidio durante il soave minuetto finale.

Cuore dell’opera è comunque la forza ineluttabile dell’amore, e questo certo lo accomuna al Tristano, e il culmine è l’inizio del second’atto preceduto da un preludio tra i più svettanti di Verdi, gravidi di passione. Ma se l’amore trionfa sull’ingiustizia nel Fidelio, in Verdi esso per trionfare deve vedersela con la morte. Eppure, questa volta, Verdi chiude con una frase consolatoria e con un coro orante che fa distendere su tutti, sull’omicida, i congiurati e Amelia, le grandi braccia del perdono.

Lavoro ricco di melodie appassionate, di sfumature sentimentali e orchestrali preziose, il Ballo non è oggi troppo rappresentato perché ci vuole un lavoro di cesello in orchestra e nei cantanti. La direzione di Jesùs Lòpez-Cobos ha puntato prevalentemente sull’effetto, mentre la regia di Leo Muscato, tra le scene colorate, ha lasciato spazio alla musica e ai cantanti-attori. Se Francesco Meli è il tenore lirico dotato ben noto come Gustavo, e Simone Piazzola un buon baritono come Renato, restano la professionalità di Dolora Zajick come la maga e la brillantezza vivace nell’Oscar di Serena Gamberoni. Discontinua purtroppo l’Amelia di Hui He, con problemi ai fiati – una bellissima frase spezzata per respirare –, toni troppo veristi.

Il coro, anche questa volta, in buona forma. Lo spettacolo è gradevole, siamo in pieno Settecento, ma è la musica che dà colore al poema d’amore del Verdi maturo che lo canta “tra scherzo e follia”.

Repliche fino al 30.

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