Fiat: chi fa il primo passo?
Farsi imprenditore significa ricordarsi in ogni momento di chi mette il capitale, di chi collabora per produrre e di chi finanzia: si tratta di obblighi civili e morali spesso pesanti, che non sempre sono giustificati dalla certezza di profitti: Luigi Einaudi, l'economista che è stato nostro presidente, in un suo famoso scritto rifletteva che imprenditore non si diventa per ragionamento ma per vocazione, in forza della sfida con sé stessi di saper creare qualcosa di nuovo e utile, di realizzare le proprie intuizioni; il profitto non è la prima motivazione, è semmai la prova del successo.
Quando poi le aziende passano di mano e non si eredita anche la vocazione di imprenditore, si fa presto a capire che nel mondo di oggi sarebbe più conveniente trasformarsi in finanzieri: più profitti, realizzati più velocemente e senza impegni verso terzi, come suggeriranno consiglieri sempre pronti ad aiutare a spremere dall'azienda la linfa di cui era stata dotata per durare nel tempo.
Se è già facile dimenticare che nei momenti difficili gli agi in cui vive chi eredita l'impresa sono rimasti tali grazie all'aiuto della comunità, in forza del fatto che l'azienda ha saputo negli anni creare lavoro e distribuire ricchezza, diventa ancor più facile dimenticarlo se eventi esterni appesantiscono gli oneri dell'imprenditore.
Per la cultura di impresa un peso particolarmente inaccettabile è l'imposizione di lavoratori non scelti, tanto più se considerati meno pronti degli altri a collaborare perché legati a un sindacato che non ha firmato il contratto di lavoro aziendale.
Questo tanto più oggi, quando un rapporto di piena collaborazione tra lavoratori ed impresa si rivela fondamentale, come dimostra in anni di crisi il successo della Volkswagen; in forza dell'essersi fatti carico dei problemi dell'azienda con assetti di lavoro più onerosi, oggi i lavoratori Volkswagen hanno stipendi molto più alti: sono stati i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione a deliberare il premio di produzione milionario per l'amministratore delegato! Altrettanto successo lo sta avendo la Fiat nella Chrysler, che ha lavoratori motivati e come importante azionista il fondo pensione dei lavoratori.
L'avvio al lavoro da parte del tribunale, magnificato da tanti, di 19 lavoratori del sindacato che non ha firmato il contratto aziendale, a mio avviso è stato per il mondo del lavoro una vittoria di Pirro, che è stata vista dall'azienda come un inaccettabile sopruso, a cui ha reagito in modo istintivo, direi infantile, mettendo in mobilità, cioè licenziando, lavoratori che essa stessa aveva scelto.
È stato un ritorno della cultura della lotta di classe, quella del secolo scorso, secondo cui lavoratori e azienda non possono collaborare; una cultura non condivisa dai sindacati che come in Germania hanno accettato di investire alcune loro conquiste degli anni del boom economico per poter competere a livello internazionale anche nell'era della globalizzazione.
È stata una vittoria che superficialmente è stata considerata una applicazione del diritto al lavoro sancito dalla Costituzione: un diritto che invece di essere invocato per farlo pesare sulle aziende esistenti, dovrebbe invece interpellare i politici ad orientare la spesa pubblica perché la comunità produca lavoro, attiri investimenti, premi l'inventiva e la ricerca, punti sulla formazione, invece di ingrassare la casta politica e la massa di imbroglioni che fa costare ogni appalto pubblico il doppio che all'estero.
Che fare adesso? Tanti chiedono all'azienda che ci ripensi, annulli i licenziamenti, se necessario mettendo i lavoratori in più in cassa integrazione: un altro imbroglio, un modo che trasferirebbe sulla spesa pubblica il loro costo. Suggerirei invece che fossero i lavoratori a fare il primo passo, ad "amare per primi" l'azienda, togliendo così argomenti a chi vuol convincere gli azionisti Fiat che in Italia non si può più produrre; il primo passo potrebbe essere proporre all'azienda un contratto di solidarietà, che contemplasse per tutti i 2.500 lavoratori la riduzione dell'orario di lavoro e dello stipendio di quanto necessario, forse lo 0,5 per cento, per far spazio alle ore di lavoro dei 19 lavoratori, a cui verrebbe chiesto di sottoscrivere il contratto aziendale: forse questo convincerebbe anche il tribunale ad evitare ulteriori improvvide simili decisioni.