Il festival del cinema premia i ricordi
Sarà per l’incertezza del presente, per la mancanza di luce del nostro tempo che ci si rivolge alla storia, alla memoria? In Laguna sono passati, in quest’ottima edizione, decine di film basati sul ricordo: il passato, recente o lontano, come momento da rievocare, per riannodare rapporti, riscoprire tenerezze, capire la verità sull’uomo.
Il Leone d’oro dato ad Alfonso Cuaròn per il film Roma, un luminoso, raffinato bianco e nero della miglior tradizione neorealista (anche italiana), rivede la storia del regista nella sua Città del Messico degli anni Settanta, riscopre l’infanzia tra la madre, la nonna, la tata indigena, osservate con immutato affetto e profonda nostalgia. Voglia di tenerezza, di ritrovare l’anima innocente nello svolgersi del quotidiano, quando ogni attimo del tempo aveva un significato di scoperta dell’amore e della vita.
Ed è sempre al passato, questa volta del secolo XVIII, che guarda La Favorita del regista greco Yorgos Lanthimos, Gran Premio della Giuria, una storia di intrighi femminili alla corte di Londra dove la fragile regina Anna è preda di ambizioni sfrenate. L’interprete, Olivia Colman – coppa Volpi come miglior attrice – ha dato vita ad una performance davvero eccellente per immedesimazione psicologica e fisica in un lavoro lussuoso, di trine e specchi, dove l’animo femminile, nel bene e nel male, fa la storia. Un’occhiata all’oggi?
E, a proposito di interpreti, meritatissima la Coppa Volpi come miglior attore al van Gogh di Willem Dafoe, 63 anni mentre il pittore ne aveva 37 quando morì. Ma lo straordinario è che nessuno se ne accorge, perché l’attore “è” van Gogh nel film di Julian Schnabel: s’è già detto, non una biografia reale, ma spirituale, dove la verità e la bellezza stanno nell’arte contemplata, cercata, sofferta e donata al futuro. A questo punto, spiace dover constatare come la giuria abbia trascurato un grande film, Opera senza autore di von Donnersmarck, ritratto epico attraverso la vicenda del pittore Kurt della Germania tra nazismo e anni Sessanta. Inspiegabile, come il silenzio sulla sceneggiatura perfetta del francese Doubles vies, intelligente lavoro di Olivier Assayas sulle difficoltà dei rapporti interpersonali. Per non dire della sorpresa del premio al lavoro della regista Jennifer Kent – unica donna in concorso con The Nightingale (premio speciale della giuria) –con il Premio Mastroianni all’attore aborigeno Baykali Ganambar. Bravo certo, ma il film sulla vendetta implacabile di una donna irlandese in Tasmania contro il soldato inglese che l’ha violentata, è storia filmata con mano prevedibile e pesante. Forse però il premio rispecchia la volontà della giuria di tenere vivo il ricordo di quante lacrime abbia costato – e costi – il colonialismo.
Giusto il Leone d’argento alla miglior regia dell’ottimo lavoro di Jacques Audiard The Sisters Brothers. Un western girato da uno spirito francese finissimo, che rivisita il genere con eleganza, fra dialoghi costanti anche spiritosi, mentre racconta di due fratelli killer a caccia di banditi e di oro, e pure con la nostalgia di casa, di una vita diversa, di affetti. Perfetti Joaquin Phoenix e John C. Relly. Si parla del passato per parlare del presente, con naturalezza e tocchi di poesia del paesaggio. Sempre western anche per i l film dei fratelli Coen – miglior sceneggiatura –, un lavoro però non perfetto, che racconta in modo ironico e spiazzante il vecchio West. Della serie: il disincanto sulle saghe e gli “ideali” del passato avventuroso.
In un panorama internazionale, dove le storie hanno attraversato i popoli, dalla Siria alla Turchia, dalla Thainlandia al Messico, dall’Argentina alla Norvegia, parlando di guerre ed emigrazioni (Damasco, i Rohingya), dell’assalto mediatico agli adolescenti – il bellissimo Il fiume del kazano Emir Biahazin, sezione Orizzonti -, il cinema italiano è apparso quanto mai vivo, creativo.
Eppure è rimasto a secco, e dispiace. Perché il lirismo sociale di Martone, la follia di Guadagnino, lo sguardo realistico di Minervini e la cronaca dolorosa di Cremonini (Sulla mia pelle, la vicenda di Stefano Cucchi) sono narrazioni non convenzionali, storie diverse legate tutte dalla ricerca della verità. Che è poi quello che vuole il cinema contemporaneo autentico. Andando ben oltre le polemiche sui due premi dati a produzioni della Netflix – rifiutate a Cannes -, sulla solita mondanità al Lido e contando sulla forte presenza giovanile a questo, che è uno dei migliori festival per qualità, degli ultimi anni. Senza perdere la magnifica mostra fotografica all’Hotel des bains – dove Visconti girò Morte a Venezia -, sui 75 anni della rassegna. Ancora una volta il ricordo come ispirazione per il presente e il futuro, se possibile.