Festival Abbado
Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Accade raramente, ma accade, che due genialità si incontrino, si amino e ne sortisca la Musica. Così quando Marta Argerich affronta, sciolta e lucida, il I Concerto per piano e orchestra di Beethoven, l’intesa con Abbado è perfetta. È un gioco di rimandi fra strumento e orchestra, cui il gesto del maestro pare riecheggiare quello della Creazione di Adamo nella Cappella Sistina: ampio, suscitatore di un suono e di una energia vitale. Il giovane Beethoven ne esce ri-creato: compatto nel primo tempo, indugiante in un’atmosfera romantica nel Largo, scapigliato e forte nel Finale. La Argerich ormai dà naturalezza anche al virtuosismo più scontato, si fa sognante e vivace, canta con l’orchestra senza che vi siano squilibri fra pianoforte e compagine. Il miracolo è appunto quest’unità che sa di meraviglioso fra lei e Abbado, così che sembra di sentire per la prima volta in assoluto, ma con la sensibilità di oggi che ne reinterpreta dinamiche e colori, il brano. Quando poi Abbado attacca il primo tempo della Sinfonia n. 7 di Bruckner sul tremolo in pianissimo (un pianissimo da favola, udibile eppur metafisico), l’onda dei violoncelli e delle viole si espande solida e fluente: l’Orchestra di Lucerna, nata con Toscanini nel 1938 e rifondata da Abbado nel 2003 con prime parti dai Berliner, dalla Scala, da Santa Cecilia e così via sullo zoccolo duro della Mahler Chamber Orchestra, è un corpo solo, con un suo suono, acuto nei violini, palpitante negli archi scuri, pregno negli ottoni: insomma, una orchestra non di virtuosi ma di gente che ama far musica insieme. Perché sta in questo il gioco abbadiano. Riuscire a far gioire i musicisti, nel caso sondando l’universo dolce, sensuale, vivace, declamatorio, spirituale di Bruckner. Tanto che il gesto finale del direttore, con le braccia alzate, sembra rimandare a quel cielo cui il compositore credeva, il suo viaggio sonoro attraverso il mondo. Ascoltare poi la medesima orchestra nella direzione di Daniel Harding, ex pupillo di Abbado e ormai direttore in carriera con un suo fuoco preciso, fa un certo effetto. Harding è giovane, nervoso, quasi precipitoso nel gesto e nella mimica, si direbbe: ma per lui, sul podio, non esiste altro che la musica. In questo è veramente un erede di Abbado. Di suo ha la scioltezza connaturale con Schönberg (Kammersinfonie n. 2) cui l’orchestra partecipa con uno stile da impennata; poi la gioia dionisiaca nella Sinfonia n.4 di Mahler, libera, felice: finalmente un entusiasta, ma di polso e ben preciso, che forse esagera un po’ nelle dinamiche, ma rende ebbra la gioia di Mahler, grazie anche alla bella voce del soprano Genia Kuhmeier. E il pubblico? Ovazioni su ovazioni, come giusto.