Festa dello Spirito

Leggerezza e potenza, levità e timore: difficile da rappresentare eppure è un soffio o un vento che dà vita e entra nella storia dandole significati inattesi
Vento agita un campo di spighe

Vanno a braccetto, spirito e libertà. Lo conferma l’autorevole Paolo: la libertà sta lì dove c’è lo spirito del Signore. Spirito e libertà hanno in comune due fattori apparentemente contrastanti: la leggerezza e la potenza. Lo spirito è lievità di brezza, respiro; proprio come la libertà, che è pure aquilone, volo di rondini.
 
Ma è anche rombo impetuoso di vento che squarcia le nubi e sconvolge il paesaggio. Entrambi, spirito e libertà, sfuggono a ogni controllo: «Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». Per questo motivo spesso appaiono temibili.
 
Ci piace più avere il controllo su noi stessi e sugli altri, che contemplare con ammirazione l’azione imprevedibile e misteriosa dello spirito di Dio. Così sprechiamo un mare d’energie ad assillare noi stessi e gli altri nella più inutile delle azioni: controllare l’incontrollabile. Lo spirito, appunto. E anche se ci riuscissimo per un certo tempo, in questa impresa, avremmo ottenuto qualcosa che è più simile alla morte che alla vita. Perché lo spirito, come il respiro, è vita.
 
Di esso bisogna gioire, non averne paura. Ci affacciamo alla vita con il primo respiro all’uscita dal grembo materno e ce la lasciamo alle spalle emettendo l’ultimo respiro, prima d’inoltrarci nel mistero dell’eternità. Tra questi due respiri la nostra storia. Che può essere splendida, se guidata dallo spirito.
 
Il termine italiano “spirito”, come è usato nella Bibbia, traduce l’ebraico “ruach”, un nome di genere femminile che significa vento, respiro; traduce il greco “pneuma”, nome  di genere neutro che deriva da un verbo che significa respirare, soffiare, aver vita; traduce il latino “spiritus”, di genere maschile, che anch’esso significa soffio, respiro.
 
Già nel genere – femminile neutro maschile – sembra compiacersi nel non farsi imbrigliare, lo spirito. Esso, vento di Dio, può essere brezza leggera, come quella che ha sorpreso il profeta Elia nell’intimità della caverna; o può essere vento gagliardo, come quello che ha invaso l’abitazione dove gli apostoli erano probabilmente riuniti per la festa di Shavuot.
 
Questa festa – che celebra il dono della Torah data da Dio a Mosè sul monte Sinai per il popolo d’Israele – cade 50 giorni dopo Pesah, la Pasqua ebraica. Per questo motivo si chiama anche Pentecoste, parola greca che significa cinquantesimo giorno. Da quel giorno però, per gli apostoli e per quelli che poi li seguirono, Pentecoste assunse un significato diverso.
 
Nel quadro grandioso che dipinge Luca negli Atti, essi fecero l’esperienza dello spirito di Dio – vento e fiamme – che rivoltò le loro anime come calzini, le incendiò d’ardore e spalancò le loro menti a comprendere appieno quello che avevano vissuto: Gesù di Nazaret, loro amico e maestro, risorto dalla morte, è il figlio di Dio. E ha affidato loro la missione di portare a tutte le genti, in tutte le lingue, la bella notizia del regno dei cieli.
 
Giovanni, nel suo Vangelo, dipinge un quadro più intimo, più simile alla brezza leggera di Elia: non c’è né fuoco né vento, né folle né lingue straniere, ma solo un’impercettibile luce interiore, chiarissima e profonda, che invade le anime degli apostoli quando Gesù dice loro: «Ricevete lo Spirito santo».
 
Due descrizioni diverse, quella di Luca e quella di Giovanni, della stessa esperienza. Nell’iconografia cristiana lo Spirito santo è spesso rappresentato come una colomba candida, mansueta. Che tende a diventare quasi invisibile e a scomparire negli sfondi dei dipinti, trasmettendo sentimenti d’innocuità e d’immobilità. Similmente all’arte, parte della cristianità non sempre ha compreso lo Spirito santo nella sua potenza di vento dirompente che sconvolge, nella sua dolcezza di brezza che consola e ristora, nella sua esuberanza di respiro che porta armonia di vita.
 
Per quanto riguarda l’arte qualche scusa è ammissibile: non è facile rappresentare il vento, il respiro, la luce particolare che il soffio dello Spirito dona al creato, a un corpo, a un volto (beh, Francesco c’è riuscito con semplici, lapidarie parole –«Laudato si’ mi’ Signore, per frate vento» – e anche pochi altri). Per quanto riguarda la vita invece non ci sono scuse. Anche perché l’esperienza dello spirito di Dio, e della libertà che esso regala, è una delle più belle che si possano fare. Vale più d’ogni ricchezza. Perché rinunciarci?
 

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