Festa del cinema. Avanti, nonostante tutto
Con la versione estesa – 40 minuti in più – de La grande bellezza di Sorrentino ha chiuso i battenti la decima volta della manifestazione romana, ieri sera, 24 ottobre. Festa o festival? La domanda e la riposta sono tutt’altro che scontate. Il neo direttore Antonio Monda, abituato ai ritmi di New York – il cui festival, per lui, “è il più bello del mondo” – ha eliminato il concorso, ridimensionato le passerelle e puntato a film di qualità e agli incontri con personalità. Di festa, onestamente, non se n’è vista troppa. Calate le presenze (oltre il 20 per cento in meno rispetto al 2014 a causa – si dice – anche della mancanza delle vasta sala Santa Cecilia), diminuiti drasticamente gli stand (e aumentato il prezzo della ristorazione) come pure il budget (4 milioni di euro), ristrette le presenze di star straniere (Jude Law ha saltato il tappeto rosso) per far onore alle nostre (ma solo la Bellucci ha uno status internazionale), il festival-festa esce da questa edizione notevolmente ridimensionato. E, ancora una volta, in cerca di identità.
Monda deve ammetterlo: per il prossimo anno penserà alla realtà delle passerelle con le star – piaccia o no, il pubblico lo vuole –, perché questa è una componente forte della “festa” che si vuole popolare. E perciò egli chiederà più soldi al Cda, come dice pure Piera Detassis, presidente della Fondazione, la quale è apparsa non sempre in sintonia col neodirettore artistico. Il quale – si parla di Monda – per i tre anni in cui resterà, è deciso a seguire la sua linea: meno film (un centinaio nel 2014, quest’anno 53 da 24 paesi), più incontri con personalità.
Onestamente è da riconoscere che il livello dei film, rispetto a certe edizioni del passato è migliorato. L’Italia con Lo chiamavano Jegg Robot dell’esordiente Gabriele Mainetti ha dimostrato una felice combinazione di generi, resuscitando visionarietà, fantasy, crime-story molto italiana in una Roma infelice della grande bruttezza, eppure aperta a qualcosa di migliore.
Room dell’irlandese Lenny Abrahamson, difficile vicenda di un amore materno possessivo e soprattutto Land of Mine del danese Martin Zandvielet, che ha avuto il coraggio di svelare la ferocia danese contro i giovani prigionieri tedeschi nel 1945, sono apparsi forse i migliori film della rassegna, carichi di potente pietas. Senza dimenticare il bellissimo cartone Il piccolo principe, vera poesia attualizzata del celebre libro.
In definitiva, giustamente, Monda ha voluto presentare diversi generi di film, ognuno col proprio linguaggio: sia storie gagsteristiche (Legend), melodrammi (Ville-Marie), avventure(The Walk), inchieste-verità (Truth, che ha aperto la Festa), drammi familiari (Le roi du monde), o personali (Full Contact), e così via.
Riusciti, inoltre, i diversi appuntamenti con personalità. A parte i l citato Law, i soliti noti (Verdone, Cortellesi, Sorrentino per la gioia del pubblico ), interessanti gli incontri con Renzo Piano e quelli di due personalità “distanti” tra loro come Paolo Villaggio e Riccardo Muti. Se il primo, in tonaca nera, è apparso ancor più cinico e cattivo, il secondo ha volato più alto, ricordando dei film che l’hanno colpito e personaggi come Nino Rota che ha conosciuto. Ovvio, non ha risparmiato frecce al nostro establishment, a certi giovani direttori contorsionisti e a compositori cerebrali lontani dal pubblico. Eppure, singolarmente, per entrambi, il tema principale era quello della morte: Villaggio ne ha terrore (di qui la tirata sui papi che “non credono – per lui – nell’al di là”), Muti pensa ad un “oltre”.
Questo, a dimostrare che la formula incontri funziona.
Quel che funziona sempre meglio, il vero festival, è la sezione “Alice in città”, innovativa ogni anno. Giovani e ragazzi, in folte schiere, hanno premiato dei gran bei film: Four Kings – opera prima della tedesca Von Etz, quattro ragazzi passano il natale in una clinica psichiatrica –, Mustang (film turco di quattro sorelle sequestrate in casa) e The Wolpack.
Insomma, i ragazzi vedono più lontano degli adulti? Parrebbe davvero di sì.
Questa la “festa”. C’è da fare. Magari pensare a rivitalizzare Cinecittà proprio in occasione della manifestazione. La quale appare appunto questo: una manifestazione. Libera – così vorrebbe essere – dai cliché consueti dei festival ed essere “solo cinema”: personaggi, film, incontri. Funzionerà? Intanto, qualcosa si sta muovendo. Né festival né festa. Andiamo avanti.