Festa cinema Roma, Antonio Spera parla del suo documentario sulla street artist Laika
É stato presentato alla Festa del cinema di Roma, nella sezione Freestyle, l’interessante documentario Life is (not) a game, di Antonio Valerio Spera, dedicato alla street artist Laika. Abbiamo parlato col regista, partendo dall’idea del progetto.
Mi aveva colpito molto un’opera di Laika a Testaccio, nel 2019, dedicata a Daniele De Rossi. Al pari di una sua mostra a un mercato rionale in Prati, dove c’erano volti famosi con le bugie negli occhi. Fui colpito dal sarcasmo irriverente di Laika e ho iniziato a immaginarla come personaggio cinematografico. Quest’artista che lavora nell’anonimato, ma si palesa, mi faceva pensare a un cinema superoistico, a una superoina del popolo. E poi, non so perché, mi riportava ad atmosfere anni Ottanta.
Poi?
L’ho contattata per chiederle se potevo iniziare a riprenderla: lei era stupita dell’interesse per un documentario su di lei, ma ha accettato. All’inizio riprendevo solo di notte i suoi “blitz”. Come mostra il film, ho cominciato dalla sua opera su Sonia alla vigilia della pandemia.
Quella con la ristoratrice Sonia Zhou in una tuta protettiva e vicino un fumetto che dice «C’è in giro un’epidemia di ignoranza, dobbiamo proteggerci». Poi c’è stato il Lockdown…
E la Storia ci ha travolto prendendo il sopravvento sulla mia impostazione, cambiando il film in una riflessione sui nostri tempi filtrata con gli occhi di Laika
Inizi con Le città invisibili di Calvino. «Era al di là degli schermi d’umori volatili che lo sguardo voleva giungere; la forma delle cose si distingue meglio in lontananza”. Il senso di questa frase si coglie nel finale, quando Laika spiega l’importanza di una visione d’insieme, ma anche quella di immergersi nei fatti. Quanto sono importanti questi due punti per capire la personalità di Laika?
Questa citazione è presa dalla stessa Laika, grande appassionata di letteratura, di Calvino e di questo libro in particolare. Quella frase per lei è un mantra. «Io punto allo spazio», dice, per osservare le cose in lontananza e avere una visione più chiara. Standoci completamente dentro rischi di essere troppo influenzato dalle emozioni. Però le capita anche di sentire l’esigenza di immergersi nella realtà affrontata, in situazioni che vanno vissute in prima persona, come quella dei migranti.
Il documentario è un toccante viaggio nella storia recente: migranti, pandemia, Ucraina. Laika interagisce profondamente con questo tempo. Dire che la sua arte è politica è giusto?
É politica nell’accezione più completa del termine, perché civile, sociale e umana. Laika tocca tematiche universali che non possono prescindere da un approccio umano. E’ piena di umanità.
É anche coraggiosa, provocatoria, geniale. Altri aggettivi?
Artista fuori dagli schemi, differente da tutto il panorama della street art italiana. Mescola tante tecniche di lavoro che non vuole svelare troppo. È popolare perché la maschera che indossa non la distanzia dalle persone. L’avvicina.
Il presente del film è anche quello della comunicazione. Oltre alla ricognizione sulla street art, racconti l’incontro tra arte e social, tra estro e tecnologia.
Volevo che questo venisse fuori dal film. Il lockdown ci ha portato a vivere tantissimo sui social, velocizzando un percorso già in atto nella comunicazione. Questo ha influenzato anche il mondo dell’arte. Laika, dopo la popolarità con l’opera sull’abbraccio tra Giulio Regeni e Patrick Zaki, si è ritrovata col suo museo a cielo aperto, ovvero la strada che definisce “galleria d’arte più democratica del mondo”, diventata luogo di nessuno. Così quei social che prima erano strumento promozionale sono diventati un museo democratico sostitutivo della strada.
Però…
La sua arte ha un significato diverso se affissa su un muro o su un social. Lo dice anche nel film: «Un muro non vale un altro muro» e non si sostituisce con un hastag. L’opera su Giulio Regeni sul muro dell’ambasciata egiziana ha un significato preciso. I social e la rete, con tutta la loro importanza, non possono sostituire la vita reale.
Il titolo, Life is (not) a Game, dedicato al tema dei migranti, si comprende nell’ultima parte del lavoro: hai dosato bene la tensione, hai creato movimento con rimandi al cinema di genere; hai rallentato quando serviva.
Il film vive di contaminazioni e omaggi al cinema che mi piace. É stata una scelta espressiva precisa perché somiglia a Laika: la sua arte è fatta di diverse tecniche, di riferimenti culturali e contaminazioni. Come potevo rappresentare tanta varietà? Ho giocato col cinema, da quello di genere all’italiana alla vestizione batmaniana anni ‘90 di Laika, dal suo giro morettiano in monopattino per Roma fino a una citazione di Arancia meccanica. Per questo anche il not del titolo è tra parentesi: se principalmente è riferito al dramma dei migranti sulla rotta balcanica, sottolinea anche la passione ludica di Laika per il suo lavoro, il suo equilibrio tra gioco e impegno civile, tra la vita che non è un gioco, quando si parla della sofferenza dei migranti, ma lo è quando si vive con trasporto la propria professione.
Com’è stato raccontare qualcuno di cui non vediamo il volto?
Il cinema del reale tende a stare molto vicino ai personaggi, a lavorare sul non detto, sugli sguardi. Con Laika questo non si poteva fare. Non avevo un volto e dovevo trovare il modo per farle esprimere le sue emozioni.
Soluzione?
Ho messo negli altri le emozioni di Laika, facendo in modo che fossero il suo specchio. Poi ho adoperato alcuni frammenti delle sue interviste.
Tra i momenti più forti del documentario c’è il viaggio in Bosnia, nel campo profughi di Lipa, dopo l’incendio. Da qui il titolo del film e qui avete incontrato testimonianze toccanti. Che esperienza è stata?
Una delle più forti della mia vita. Laika non sopportava più che a causa della pandemia certi temi non venissero affrontati. Dopo l’incendio non si poteva entrare nel campo, ma abbiamo raccolto le testimonianze di chi usciva per prendere gli aiuti delle ONG.
Non solo….
Anche quelle di migranti che vivono autonomamente in una fabbrica abbandonata. Abbiamo passato del tempo con loro vivendo la loro realtà piena di dignità, coraggio, semplicità e rabbia. Il loro quotidiano intervallato da quelli che chiamano game, ovvero i tentativi di superare il confine con la Croazia, ma il risultato che spesso ottengono è il respingimento coi segni di violenza che vediamo sul loro corpo.
Lì Laika ha realizzato l’opera Life Is not a game..
La forza di Laika sta nel costruire immagini potenti e ricche di significato; ma anche nell’inserirle in un luogo preciso attraverso la performance in strada. L’arte di Laika è semplice e immediata, capace di arrivare a tutti ma anche di essere letta a più livelli. Le sue opere si aprono sempre a un dibattito, a un confronto.
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