Ferro e fuoco
Erano esposti lì, senza troppe pretese, in uno spazio scarno. Un tavolo, una libreria, un portabottiglie. Oggetti d’arredamento. Che attirarono però la mia attenzione. Emanavano forza. Come se volessero raccontare una storia. A volte, si sa, anche le cose lo fanno. M’incuriosirono. E pure il loro marchio, ferro e fuoco, mi piaceva. Feci qualche domanda. Così venni a sapere che con quegli oggetti aveva a che fare un amico di vecchia data, Enrico. Mi feci raccontare da lui la storia.
«Avevo vent’anni – mi dice Enrico –, eh sì, parecchi anni fa. Avevo lavorato un anno e mezzo in fabbrica, poi avevo aperto con un socio un’attività in proprio. Nel campo dell’arredamento. Un giorno mi telefonò un mio ex insegnante con una proposta che lì per lì mi lasciò a bocca aperta. Mi chiedeva se m’interessava lavorare come insegnante tecnico in un carcere nella mia provincia, che è quella di Cuneo. Tu lo sai, Michele, avevo conosciuto da qualche anno l’ideale di fraternità di Chiara Lubich, e m’ero entusiasmato anch’io. Da un lato la proposta mi spaventava un po’, dal punto di vista economico ci rimettevo pure un po’, ma quell’ideale era fuoco che scottava dentro, e poi vivevamo uno slogan: “Morire per la propria gente”. Che faccio? Mi tiro indietro quando l’occasione di fare sul serio si presenta? Così decisi di accettare.
«Era il primo ottobre del ’78 quando entro nel laboratorio dove avrei lavorato e vengo presentato ai miei “allievi”. Sono tutti più anziani di me ma, dopo un attimo di panico, sento che non sarà la distanza fra di noi a prevalere. Insegnavo un corso di saldocarpenteria metallica. Quindi cose molto pratiche che portano a interagire con i miei allievi. Cercavo in tutti i modi di suscitare in loro delle motivazioni che non pensavano neppure di possedere. Ci provo. La butto lì, tento di condividere con loro quel periodo duro, di espiazione della pena: “Senti, proviamo a pensare ad un progetto che possiamo realizzare io e te. Io ho da offrirti alcune cose, le mie competenze professionali, l’appoggio… contaci. Tu possiedi ricchezze che magari in questo momento non sai cogliere. Ma sono certo che le hai. Condividiamo queste cose, lavoriamo insieme e vedrai che ne verrà fuori qualcosa di buono”.
«Iniziò così. Continua così anche ora. Ogni volta è diverso, con i nuovi allievi. Parallelamente all’insegnamento abbiamo dato vita a delle altre attività connesse. Lavoro vero e proprio, con delle commesse, tempi e metodi molto simili alle situazioni del mondo del lavoro. Il lavoro diventa però anche uno strumento di dialogo, di crescita personale. Diventa pedagogia per un reinserimento nella società: è quel lavoro che dà dignità alla persona. Andrea mi dice: “Ma io non so fare nulla, nella mia vita non ho mai fatto nulla, la cocaina era la mia unica ancora”. Io gli dico: “Mettiti questa tuta, i guanti, dobbiamo realizzare questo manufatto e desidero farlo con te”. Dopo una settimana mi dice: “Questi giorni sono volati e ho imparato ad usare la smerigliatrice e la sega a nastro e mi sembra incredibile, ma allora qualche cosa la so fare. La cocaina non m’ha bruciato proprio tutti i neuroni”. Con Fabrizio è una storia lunga, cominciata dieci anni fa. Dei suoi cinquant’anni trenta li ha passati in galera. Non riesce a pensare di poter cominciare a vivere una vita “normale”, di lavoro, di interessi condivisi con qualcuno, di una fidanzata o moglie, di bambini. Ha voglia di farlo. Io cerco d’avere fiducia in lui, d’accompagnarlo anche se a volte sembra tutto inutile. Cadute, momenti di speranza, ancora cadute. Ma è tornato nella sua città per riscoprire se, partendo da dove è nato, può avere gli stimoli per rifarsi una vita, come si dice. È da queste esperienze che, una cosa tira l’altra, è nata quest’attività di costruzione di complementi d’arredo. Oltre ai miei allievi ci sono pure tre, chiamiamoli così, “ex allievi”, che vi lavorano a tempo pieno. Gli abbiamo dato un marchio: “Ferro & Fuoco jail design”. Abbiamo degli spazi espositivi. E anche un sito www.ferroandfuocojaildesign.it. Vediamo dove ci porta».
Enrico poi mi fa avere queste righe scritte da uno dei suoi collaboratori. «Mi chiamo Soumaila, sono nato in Africa, nel Benin. Sono sposato e ho quattro figli che vivono in Francia con mia moglie. In Italia non ero mai stato. Quando ci sono venuto, non mi sono nemmeno accorto d’esserci arrivato che mi sono ritrovato in carcere. Era la prima volta ed ero disperato. Sono stato inserito nel corso di saldocarpenteria dove ho conosciuto Enrico. Piano piano con la sua comprensione, quella dei suoi collaboratori, e il loro aiuto, ho ricominciato a vivere. Sono musulmano, praticante. Ma non sono un fanatico. Incontrare Enrico che è cristiano è stata per me un’esperienza che non dimenticherò. Il nostro dialogo non è tanto basato sul confronto tra Vangelo e Corano, ma è un dialogo della vita, dove la “regola d’oro”, “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, che abbiamo sia noi che i cristiani, si cerca di viverla quotidianamente. Per esempio, quasi tutti i giorni scrivo una lettera a mia moglie e ai mie fratelli in Benin ed Enrico le scannerizza a casa sua e le spedisce via mail, così ho la risposta immediata. Io, poi, tutte le mattine aspetto Enrico per aiutarlo a spingere il carretto carico di pesanti tubi in ferro che servono per il lavoro. Fra quattro mesi finisco la mia carcerazione. Il carcere è un’esperienza negativa, ma posso dire che ora ho una famiglia anche in Italia».
Ora capisco la forza che emanavano quegli oggetti.