Ferrara è viva
Mica si scoraggiano i ferraresi. Nella loro bellissima città, nonostante ancora alcuni luoghi siano chiusi a causa del terremoto – Palazzo Schifanoia, la Pinacoteca Boldini –, in quel gioiello che è Palazzo dei Diamanti si percorre una di quelle rassegne che in opere essenziali dicono una stagione d’arte inimitabile. Qui, siamo tra fine Ottocento e primo Novecento, e gli autori sono Previati, Boldini e De Pisis, tutti ferraresi. Ovviamente, sono stati etichettati come autori o simbolisti o realisti, definizioni utili certo, ma mai del tutto corrispondente alla piena verità. Perché un artista è un artista, e nulla di meno o di più. Ognuno ha la sua personalità, certo espressione del suo tempo, ma ciascuno è sé stesso: inconfondibile.
Penso a questo passando di sala in sala di fronte alle opere di questi tre personaggi. Quant’è tremendamente raffinato, Giovanni Boldini. Ritrattista di ragazzi e di uomini, ma soprattutto di donne. Che donne. Sono le “femmes fatales” di moda nella Belle Époque, lontane e aggressive, vestite di sete fluttuanti, di capelli vaporosi, in pose frontali o sedute che sempre guardano in faccia. E non hanno paura. La femminilità intesa come seduzione guardinga o esibita, scaltra e sorridente è tutta nella Signora in rosa, del 1916, uno dei quadri più belli di Boldini. È tutto un rosa, carnoso, delicato, di sete lievi increspate da un vento che s’indovina leggero a dar colore a quel viso fresco, appoggiato ad una poltrona. Boldini sparge note di colore dovunque a grasse pennellate lucenti. La sua pittura sembra un poema sinfonico della grazia e della bellezza femminile. Come nella musica di un Richard Strauss o nella prosa di un Oscar Wilde.
Gaetano Previati è un altro carattere. La sua è una pittura allusiva, impregnata di luce diffusa, atmosferica. Siano visioni di monti, come il "Resegone" del 1897, o di una Venezia fluttuante in luminescenze, siano temi sacri come l’"Assunta" del 1903, costante è in lui un sentimento dinamico del colore, steso a filamenti lunghi ed evocativi di forme. Il Paolo e Francesca dantesco del 1909 è pittura “simbolista” e in un certo modo “divisionista”, ma è specialmente amore per spazi grandi, colori tenui, con la materia ridotta al minimo, quasi più pastello che olio su tela.
Delicatezza, insomma, al grado massimo. Pare di sentire certi fruscii delle liriche di Giovanni Pascoli o alcuni languori di poesie di Gozzano.
Quanto a Filippo De Pisis basterebbe l’olio su cartone "I grandi fiori di casa Massimo", del 1931, per dire che ci si torva di fronte a un poeta del colore, a un innamorato della vita che si sgrana e rugge dai bianchi carnosi dei gigli, come dai rossi delle pelli dei ritratti, dai bruni stilettati delle vedute parigine. Pittura più di frammenti che di filamenti, per tocchi che sono parole sole come certe poesie di Ungaretti. La pittura di De Pisis è un brivido d’amore. Una esplosione di vitalità, soprattutto verso la fine, i suoi ultimi anni quando il segno si fa ancora più conciso. Fa pensare a quelle musiche di poche scarne note che i sommi sanno scrivere alla fine della vita, siano Beethoven o Verdi.
Tre personalità a dire tre momenti della nostra storia. Cosa accomuni uomini tanto diversi è Ferrara. Città di fantasmi, di sole estivo roboante che lesto se ne va quando l’autunno umido arriva e avvolge di brividi di luce questo luogo magico, che non può che far innamorare della vita.
"Boldini Previati e de Pisis". Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Fino al 13/1 (catalogo Ferrara Arte)