Fermiamo le carrette della morte
Anziché pesci nelle reti, uomini. Che vengono su dai fondali, anche dopo giorni. O dopo mesi. Macabro ma vero, purtroppo. Come lo è altrettanto andare in spiaggia e trovarvi dei cadaveri. È una storia che si ripete da tempo nel Mare di Sicilia. Da troppo tempo. Tragedie. E non quelle greche di una volta. Agrigento, Porto Empedocle, Mazara del Vallo come altri paesi: sono meta di quei gommoni della morte che non finiscono di riversare sulle coste siciliane migliaia di uomini, donne e bambini, che non hanno più nulla da perdere. Le cronache continuano a parlarcene, di queste carrette del mare, che arrivano stracolme di quella che viene considerata da chi la trasporta “merce umana”. E invece si tratta di gente disperata che non ha altra soluzione che rischiare la vita. Puglia, Calabria, Sicilia, Lampedusa, Pantelleria: rotte della speranza spesso trasformatesi in rotte di morte. E se il flusso è diminuito nelle prime due regioni, passando ad esempio in Puglia dai 12.656 sbarchi del periodo gennaio-agosto del 2000 ai 3.337 dello stesso periodo nel 2002, in Sicilia si è registrato l’esatto contrario. Da 1.724 immigrati arrivati clandestinamente nei primi 8 mesi del 2000 si è passati ad 11.115 persone sbarcate da gennaio ad agosto di quest’anno. Un’emergenza vera e propria che va avanti da anni, suscitando un po’ di clamore quando ci “scappa il morto”, ma poi tutto sommato rientrando nella “normalità”. Se è normale che tutto questo succeda. Secondo l’International center for migration policy development di Vienna, sarebbero infatti almeno 400 mila l’anno le persone introdotte illegalmente in Europa. Se ne occupano le varie mafie, russa, turca, albanese, nigeriana, cinese con un giro di soldi difficilmente quantificabile ma certamente elevato. E l’Italia, per la sua posizione geografica, è un paese dove transita una buona parte di questa gente. Solo il 25 per cento si ferma nella penisola, mentre il resto raggiunge altre località europee. Motivo per cui, il ministro dell’Interno Pisanu ha potuto affermare che “i clandestini morti nel Mare della Sicilia e lungo tutte le coste prese di mira dagli scafisti pesano sulla coscienza dell’Europa”, chiedendo la priorità massima al problema immigrazione nell’ambito del calendario di attività del parlamento che ha sede a Bruxelles. Lo stesso Romano Prodi aveva detto che “se sull’immigrazione non c’è una cooperazione strettissima a livello continentale, questo diventa un fenomeno che i singoli paesi non riescono ad affrontare”. Certo è difficilmente spiegabile (o forse lo è fin troppo) come nell’era tecnologica in cui viviamo non si rie- sca ad individuare gli scafi in arrivo. Sicuramente i 155 mila chilometri quadrati delle nostre acque territoriali rendono più complicata l’individuazione delle imbarcazioni che sono anche piccole il più delle volte, almeno da un certo punto in poi. Ma forse non si è ancora imboccata la via giusta per contrastare questi arrivi clandestini. Come mai ad esempio gli sbarchi sono diminuiti in Puglia, come dicevamo sopra? Forse perché grazie ai fondi del programma di sviluppo della sicurezza del Mezzogiorno, la regione è stata attrezzata di apparecchiature moderne ed efficienti. O anche perché accordi diplomatici hanno intensificato la collaborazione fra la Marina militare e la polizia albanese. E come mai la Spagna è riuscita ad istallare un Servizio integrale di vigilanza esterna (Sive) sui suoi 110 chilometri di coste prediletti dagli scafisti tutto il giorno per tutto l’anno? “Al ministro dell’Interno e agli altri ministri interessati chiedo intanto un reale rafforzamento dei controlli in mare. In alto mare. Anzi, in direzione dei porti di partenza, ormai noti perché stanno in Tunisia e in Libia “, ha affermato il presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro. Che ha anche aggiunto: “Io sono il presidente di una regione che ha avuto milioni di emigranti. La nostra storia ci porta ad accogliere gli uomini che hanno bisogno. Noi continuere- mo ad aspettarli sul molo, come accadde a Catania con la nave dei mille clandestini, per nutrirli, vestirli. Altri, invece, devono fare in modo che non arrivino. E bisogna investire risorse per rendere possibile a questa gente di scegliere di restare a casa loro”. Convivere nel ragusano Qual è dunque il rapporto fra gli abitanti dell’isola e i nuovi arrivati? “Venticinque anni fa, quando cominciavano ad arrivare l’atteggiamento della comunità locale era per lo più di commiserazione e di rifiuto – mi dice Bartolo Scilieri, responsabile della Caritas diocesana di Ragusa -; adesso è più diffusa una accettazione passiva che nasce da una costatazione di fatto della loro presenza sul territorio “. Con la passione di chi dedica tempo ed energie agli immigrati (12 mila quelli registrati in provincia), il dott. Scilieri mi dipinge un quadro della situazione dalle molte sfumature. Intanto va registrata in questi ultimi anni una certa inversione di tendenza, quella di mettere radici nel paese ospitante, favorita dai ricongiungimenti familiari. Oltre che dovuta ai matrimoni misti contratti, con la conseguente nascita di bambini che poi frequentano qui le scuole. Si è anche evidenziato un miglioramento delle situazioni lavorative, col passaggio ( nella misura del 2-3 per cento) dalla semplice manovalanza all’imprenditoria agricola. E mentre i tre quarti del reddito di queste persone viene speso nel territorio che li ospita, il restante denaro va nel loro paese d’origine, trasformandosi in case e, a volte, in nuove attività. Inoltre, grazie all’interesse della regione, sono migliorati i rapporti commerciali con la Tunisia, fatto questo che ha favorito cooperazioni con ben 250 aziende siciliane. Le difficoltà certo non mancano e l’integrazione è ancora una realtà da costruire, anche se passi concreti di amicizia sono stati compiuti. “Sono varie le iniziative che intraprendiamo con la Caritas – mi racconta l’interlocutore -. Da corsi di alfabetizzazio- ne, ad altri professionali, a doposcuola per bambini. Bisogna pure dire che il rapporto non è facile nemmeno tra i vari gruppi di immigrati stessi. I nordafricani tendono a fare gruppo a sé, così come gli albanesi o i rumeni Di recente è stato avviato il progetto Itaca sud, che ha già avuto dei precedenti in Francia, Spagna, in Liguria. Si tratta di formare un gruppo pilota costituito da famiglie di immigrati e attori dei vari servizi, dalla Usl al comune, dalla scuola ai servizi sociali e di ordine pubblico, ecc. È necessario infatti, per affrontare adeguatamente la situazione, che si lavori insieme e non ognuno per conto proprio. Integrarsi nell’agrigentino Anche nell’agrigentino, altra zona calda della presenza d’immigrati in Sicilia, si può registrare una certa vivacità. Vi operano la Caritas diocesana, la comunità missionaria Porta aperta, l’associazione Oltre le frontiere ed altre. Vengo in contatto con alcuni membri dell’associazione culturale Acuarinto. Per prima conosco Annalisa Tornambè. Di lei mi colpisce una cosa: l’entusiasmo nel fare questo che per lei sembra sia più che un lavoro, quasi una vocazione a mettersi al servizio dei più bisognosi. Lo testimonia tra l’altro l’insicurezza economica dell’impiego stesso che non garantisce lo stipendio ogni mese. Dipende infatti dalla disponibilità dei fondi regionali o nazionali che di volta in volta possono venire erogati. Dunque ci rechiamo presso la sede di Acuarinto ( che ha istituito nel 2000 un centro di accoglienza, uno sportello unico per cittadini stranieri e un centro di accoglienza a Racalmuto) e qui Donato Notonica mi introduce nel rapporto tra gli immigrati e la gente del posto. “La popolazione agrigentina – mi dice – è in genere tollerante rispetto a questo fenomeno che per noi, tutto sommato, è abbastanza nuovo. Si è infatti sviluppato negli ultimi cinque o sei anni. Forse per la storia che ci ha sempre caratterizzato, gli agrigentini sono stati disponibili ad aiutare questa gente. Non si sono infatti mai verificati episodi di razzismo o di intolleranza anche se devo notare ad esempio, con dispiacere, una sorta di crescita separata tra i gruppi magrebini, senegalesi, mauritiani. Tuttavia rispetto ad altre zone d’Italia possiamo ritenerci soddisfatti”. Gli immigrati (3 mila quelli registrati in provincia) per lo più si dedicano al commercio ambulante, o sono inseriti nel settore della ristorazione sia come cuochi che come camerieri. Come evitare che la gente debba rischiare la vita per arrivare in Italia, ci si chiede a un certo punto della conversazione. Secondo Donato Notonica, a parte il pattugliamento che comunque si fa nel “troppo grande Mediterraneo”, la priorità sta “nella sottoscrizione di patti bilaterali dal momento che l’intelligence italiana è sicuramente ormai in grado di ipotizzare una sorta di tracciato delle rotte dei traghettamenti. Come in ogni problema occorre andare a monte piuttosto che occuparsi dell’emergenza. Il movimento di persone non può essere frenato da nessuno perché quando si mette a rischio la propria vita, vuol dire che non si ha più niente da perdere, questo è un dato di fatto. Il mescolamento fra i popoli è ormai un processo irreversibile con cui dobbiamo fare i conti”. La prospettiva dunque è quella di una nuova politica di integrazione fra l’Europa e le nazioni nordafricane e mediorientali. Anche per questo nasce in Sicilia, a Caltagirone (Ct) l’Osservatorio permanente sui movimenti migratori nel Mediterraneo. In collaborazione con tre atenei – la Lumsa e la Sapienza di Roma e l’università di Catania – e col patrocinio della Regione Sicilia, studierà i fenomeni connessi all’immigrazione e proporrà iniziative politiche, sociali e culturali per affrontare quella che sempre più è un’emergenza. Non potevo restare nel mio paese TJamal Alanbaki è uno dei 22 uomini accolti al Centro per immigrati di Racalmuto (Ag). Viene dall’Iraq. Come lui anche gli altri ospiti del Centro hanno delle storie tragiche, visibili nel corpo e nello spirito. “Non ero libero nel mio paese e vivevo in estrema povertà. Di fronte a me nessuna prospettiva di vita. Di alcuni parenti non avevamo più notizie da anni. Mentre facevamo la guerra col Kuwait (sono stato arruolato 15 anni), speravo sempre che questa finisse per poter scappare. Se l’avessi fatto mentre ero in servizio, infatti, avrei messo a rischio tutta la mia famiglia. Finita la guerra dunque l’unica mia idea era quella di venir via. Tramite alcuni amici che erano già in Italia, sono riuscito ad arrivare in Turchia. Lì ho conosciuto delle famiglie irachene, sono entrato in contatto con un “traghettatore” e, pagando 4000 dollari, sono arrivato a Lampedusa dopo un viaggio di una settimana. Nella barca di quasi 12 metri eravamo 65 persone. Da giugno sono in Italia e mi trovo in questo centro di Racalmuto dove, grazie a Dio, sto bene. So solo una cosa: non tornerò mai più in Iraq, infatti ho chiesto asilo politico. È da vent’anni che lo pensavo”. In Sicilia mi trovo benissimo Khosrow Mansour Sohani, iraniano, è dall’82 in Italia. Medico chirurgo, ha sposato una siciliana ed ha due figli. Attualmente vive a Vittoria (Rg). “Sono venuto in Italia per studiare medicina ed in seguito alla guerra con l’Iraq, subentrate difficoltà economiche e politiche, ho dovuto lavorare fino a 14 ore al giorno per mantenermi agli studi. Riguardo agli immigrati io penso che prima di tutto sono male informati dai mass media che offrono un’immagine idilliaca dell’Italia. Inoltre se è giusto portare soccorso a chi arriva drammaticamente bisogna soprattutto creare condizioni migliori nei paesi da cui provengono ad esempio investendo in aziende agricole locali. Chi viene qui, spesso, anche se ha delle capacità, rischiaseriamente di finir male perché comunque si trova fuori dal suo contesto, viene preso dalla nostalgia della famiglia, del proprio paese, non sa a chi rivolgersi. Anche dei tentativi fatti in collaborazione con le istituzioni locali, infatti, stentano a durare. “Si tratta dunque di decidere sul serio se vogliamo fare qualcosa per risolvere il problema oppure se ci limitiamo qualche manifestazione d’interesse quando succedono le tragedie. “La città di Vittoria è comunque un posto dove gli immigrati, se si sforzano un po’, riusciranno a vivere bene perché la gente è disponibile all’accoglienza. Basta capire meccanismo e rispettare le regole. Io sono riuscito ad inserirmi benissimo. Forse sono stato fortunato”.