Fermezza e dialogo

Agli attentati come quelli di New York, di Madrid, di Londra, non ci si può certo abituare, anche se sono diventati prevedibili. Anche se, dopo la spettacolarità mediatica raggiunta dai primi due avvenimenti, forse mai così alta prima d’allora, questa volta gli inglesi hanno scelto, per natura loro, ma anche per calcolo, il più basso profilo possibile. Pochissime immagini delle stragi compiute hanno fatto il giro del mondo, e non certo le più drammatiche. Niente spazio al sangue che corre, ai volti sfigurati, ai corpi carbonizzati. Contenuto il dolore e palese la volontà di continuare, com’è giocoforza, a vivere nella quotidianità. C’era da aspettarselo un atteggiamento simile dai fieri abitanti delle isole britanniche. Come c’è da aspettarsi qualche risultato dalle pur difficilissime indagini, perché la longanimità con cui viene offerto dagli inglesi agli altri popoli di vivere e profittare della libertà che riservano a sé stessi, non va scambiata per debolezza. Ma questo paese è stato sempre compatto dietro ai propri governanti nelle grandi decisioni che hanno voluto prendere. Non così nel resto d’Europa, o almeno in gran parte di essa. Certo non in Spagna, come s’è visto dopo gli attentati di Madrid. E nemmeno in Italia, dove oggi si teme forse più che altrove un analogo attentato, visto che le nostre condizioni di vita ci rendono pressoché indifesi e indifendibili. Ma tutta l’Europa, a ben vedere, è sotto scacco, perché, dopo il primo shock delle Torri di Manhattan, si è messa a distinguere, a correre in tutte le direzioni, a disquisire sulla propria faragginosa Costituzione. Perché è divisa. Perché non ha una politica estera comune e tanto meno una difesa coordinata. Questo sfascio è sot- to gli occhi di tutti ed è giudicato negativamente dai commentatori più autorevoli. Quanto agli italiani, non basta essere meno euroscettici degli altri – probabilmente in Italia la Costituzione europea avrebbe superato il vaglio di un referendum. Non basta avere una politica filoamericana condivisa da alcuni e avversata da altri. Non basta che il nostro governo abbia in parlamento una larga maggioranza e ripeta a noi stessi e agli altri che in Iraq non siamo andati per fare la guerra, ma per aiutare la gente. Neppure basta avviare, come promesso, un rientro graduale dei nostri soldati. Perché a scatenare il terrorismo non è stata neppure la guerra in Iraq. Occorre qualcosa di più, anzi molto di più. Qualcosa che deve e può essere fatto soltanto dalla gente: da noi tutti, visto che l’Europa non riesce ad esistere come soggetto politico. Dobbiamo trovare un rapporto con i musulmani a cominciare da quelli che vivono vicino a noi. Ciò non vuol dire non condannare il terrorismo, e meno che meno smettere di combatterlo. Ma non possiamo farlo da soli. Oggi questi nostri nuovi concittadini, con cui abbiamo avviato una spesso proficua convivenza, condannano pure loro, certamente in grande maggioranza, la violenza dei terroristi; ma con qualche riserva, perché non si sentono del tutto equiparati a noi. Mentre noi stessi coltiviamo le nostre riserve e manteniamo le distanze. Penso proprio che il primo passo parta da qui. Dobbiamo conoscerci. Stimarci. Quando ciò avviene – forse lo abbiamo già sperimentato qualche volta – cadono molte barriere. I primi alleati per smontare i terroristi e i loro sostenitori dell’odio che covano verso l’occidente, dobbiamo cercarli fra i seguaci dell’Islam in casa nostra. Il cambiamento non sarà facile né immediato, ma è l’unica strada percorribile. Qualcuno suggeriva di cominciare invitando a pranzo una famiglia di musulmani. Sarebbe certamente un buon inizio.

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