Come fermare la rincorsa tra prezzi, salari, affitti e tariffe?

Il peso dell’inflazione che può condurre l’Italia verso la recessione. Quali soluzioni possibili?
Inflazione
(Foto: Pixabay)

La pandemia ha acceso la miccia dell’inflazione, perché chi aveva soldi da spendere, ma in giro non poteva andare, dal suo computer ha comprato ogni genere di oggetti, in gran parte prodotti in Estremo Oriente. Le complesse supply chain (catene di fornitura) internazionali si sono però inceppate, un po’ per il blocco della produzione in Cina, un po’ perché il porto di Los Angeles o la distribuzione via camion nel continente americano non riuscivano a tenere il passo, un po’ perché mancavano i chip per le apparecchiature elettroniche delle auto o delle lavatrici. E quando le forniture scarseggiano, come è successo soprattutto in America, i prezzi vanno su.

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A buttare altra legna sul fuoco, soprattutto in Europa, è stato il taglio delle consegne di gas dalla Russia, che, con l’aiuto della speculazione, ne ha mandato il prezzo alle stelle. Una terza spinta sui prezzi, meno grave per noi rispetto ad altri Paesi importatori nordafricani o subsahariani, è venuta dal blocco (prima totale e poi parziale) delle esportazioni di grano, mais e semi oleosi dal Mar Nero per via della guerra in Ucraina. Risultato per l’economia italiana: in media i prezzi del 2022 sono risultati più alti dell’8% rispetto all’anno precedente (con punte fino al 12% in alcuni mesi dell’anno), ben oltre quel 2% che viene considerato normale; e la salita continua, seppure un pelo meno intensamente.

L’inflazione è come una gara di corsa, a cui – volenti o nolenti – dobbiamo partecipare tutti: grandi imprese e piccoli negozi, dirigenti di azienda e lavoratori precari, pensionati e percettori di affitti, famiglie con soldi in banca e altre indebitate. Chi resta indietro, perché non riesce a far aumentare le sue entrate al ritmo a cui aumenta l’insieme dei prezzi, si trova impoverito, perché ognuno dei suoi euro vale via via di meno. Certo, l’inflazione di cui stiamo parlando non ha la drammaticità di quella di cui soffrono gli argentini (lì da un anno all’altro il carrello della spesa è arrivato costare il 100% in più), ma una perdita di potere di acquisto che in meno di due anni potrebbe superare il 15% ha comunque i suoi aspetti drammatici, tanto di più per chi nel menage quotidiano non ha spese superflue da tagliare.

Come fermare la rincorsa tra prezzi, salari, affitti e tariffe, si chiedono i responsabili della politica economica? La terapia standard è un restringimento del credito: se è più difficile avere un finanziamento, o se questo richiede di pagare tassi più alti, diminuirà la spesa per l’acquisto di case, automobili, arredamento, macchinari… e quindi l’attività economica rallenterà. Stavolta a scarseggiare sarà la domanda di beni e allora i venditori i prezzi dovranno tenerli più bassi.

Attenzione, un’importante categoria di venditori sono i lavoratori, che pure devono trovare compratori per i loro servizi: la cosa sarà più difficile se l’attività economica ristagna, quindi dovranno accontentarsi di paghe più basse; allora i costi delle imprese aumenteranno di meno e questo rallenterà il ritmo della rincorsa. Si può dire qualcosa di più: è proprio dalla moderazione salariale che in genere ci si aspetta il primo colpo di freno all’inflazione. Una ragione tecnica è che le retribuzioni, pur essendo differenziate in migliaia di categorie e livelli, vengono contrattate in modo molto più coordinato rispetto ai prezzi dei milioni di diversi tipi e varietà di beni; quindi per dare una svolta è più facile cominciare dal lavoratori.

Fabio Panetta, rappresentante italiano nel Consiglio esecutivo della Banca centrale europea (Foto Valerio Portelli/LaPresse)
09-10-2019

A questa ragione tecnica possono poi aggiungersi, o contrapporsi, ragioni politiche, a seconda delle idee che governi e banche centrali possono avere su quale tra le due parti, lavoratori o imprese, sia meglio che faccia i suoi sacrifici. Un messaggio importante a questo proposito viene da alcune ricerche sull’andamento delle imprese europee quotate in borsa: gli ultimi anni sono sì stati anni di crisi, ma i loro margini di profitto sono aumentati. Ne ha parlato, tra gli altri, Fabio Panetta, rappresentante italiano nel Consiglio esecutivo della Banca centrale europea, in un’intervista al New York Times. I dati lo confermano: un’importante spinta all’inflazione è venuta proprio da lì, mentre i lavoratori hanno perso potere d’acquisto.

Controllare l’inflazione aumentando i tassi di interesse – come sta facendo, pur in modo misurato la Banca centrale europea – ha lo spiacevole effetto di rafforzare il pericolo di una recessione e del suo lascito di disoccupazione e crisi aziendali, aggiungendosi ai venti di tempesta provenienti dalla guerra in Ucraina e dai mercati internazionali dell’energia e degli alimenti. Oltre a ciò una recessione sposterebbe ancora di più la bilancia della distribuzione del reddito a sfavore delle famiglie lavoratrici. Un contributo meno doloroso al rallentamento dei prezzi, osserva giustamente Salvatore Bragantini dalle pagine de Il Domani, potrebbe darlo il governo se sostenesse apertamente e con decisione l’operato delle autorità antitrust, cui spetta garantire la concorrenza dei mercati, e tenendo a freno le corporazioni (di balneari, tassisti, ordini professionali…) che sottraggono una fetta di torta troppo sostanziosa a chi necessita dei loro servizi.

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