Fermare la chimica del cloro?

Le immagini dei telegiornali ci hanno mostrato in questi mesi montagne di immondizie in fiamme in Campania. Gli incendi dei cumuli di rifiuti sono pericolosi, perché la loro combustione produce diossine, composti di cloro e carbonio cancerogeni. Dal terreno giungono a noi tramite la catena alimentare, provocando anche danni genetici. Si tratta di una vera emergenza che dovrebbe portarci a riflettere più a fondo sui danni all’ambiente che permettiamo avvengano in nome della civiltà dei consumi. Le diossine (esiste in natura una spugna che ne produce una piccola quantità come repellente) sono dannose anche in piccole quantità. Sono prodotte dalle industrie chimica e siderurgica. Il nostro corpo, poi, è fatto soprattutto di carbonio, ed anche il cloro è indispensabile all’essere umano in piccole quantità: per esempio come l’acido cloridrico nei succhi gastrici che consente la digestione del cibo. Ma forse conviene chiederci come mai, dopo miliardi di anni di evoluzione, il cloro e il carbonio, pur molto diffusi, non siano quasi presenti in natura. Il cloro, sotto forma di cloruro di sodio, il sale da cucina, è stato segregato nei mari. Nei millenni la pioggia lo ha lavato via dalle terre emerse ed attraverso i fiumi lo ha concentrato in mare. Dove non è stato possibile, i terreni sono diventati deserti privi di vita. Lo stesso vale anche per i mari come il Mar morto, dove vi è un’eccessiva concentrazione di sale, che ha impedito lo sviluppo della flora e della fauna marine. In natura, i prodotti composti da carbonio e cloro erano molto rari. Sono apparsi con lo sviluppo delle materie plastiche prodotte dal petrolio portando gli elementi ad alta temperatura. Si è così riusciti ad ottenere molecole di etilene e propilene che, agganciandosi in lunghe catene, si trasformavano in polietilene e polipropilene, materiali plastici con cui produrre una quantità di oggetti: dai sacchetti per la spesa alle bottiglie per l’acqua, dai cellulari ai fili elettrici, dai giocattoli a mille altre cose utili. Un’invenzione importantissima, che ha cambiato il mondo, ma che è risultata meno esaltante quando si è trovato il modo di produrre plastica con solo il 40 per cento di petrolio e il restante 60 per cento di cloro facilmente ricavabile dall’acqua del mare. L’etilene formava con il cloro il cloruro di etilene, che ad alta temperatura si trasformava in cloruro di vinile: un gas velenoso capace di legarsi in lunghe catene per trasfor- marsi in una plastica stabile, il poli- vinile-cloruro, il ben noto Pvc. Questo tipo di plastica ha avuto ed ancora ha grande successo: di Pvc sono i famosi dischi a 45 giri (ancora si chiamano vinili), le tapparelle e le persiane, le sedie da giardino, gli interni delle autovetture, le prese ed i rivestimenti dei fili elettrici, le taniche e i contenitori del frigo, le bambole, il frigo stesso, i contenitori di rifiuti. Che produrre Pvc fosse pericoloso, i medici italiani lo avevano reso noto fin dagli anni Settanta. Infatti se il Pvc è di per sé innocuo, il componente che lo genera, e che da esso in certe condizioni può sprigionarsi, può indurre un particolare tumore del fegato. Per di più il cloro si ottiene scindendo con energia elettrica il sale marino in celle al mercurio, metallo i cui residui velenosi finiscono inevitabilmente in mare, da dove tornano ad avvelenarci dopo essere stati assorbiti dai tonni e dal pesce azzurro. Oggi sarebbe disponibile una nuova tecnologia pulita, con celle a membrana; ma degli otto impianti italiani di questo tipo solo due l’hanno già adottata. Secondo Greenpeace, si possono liberare piccole quantità del componente cancerogeno dai tubi di Pvc dell’acqua e dai componenti della nostra autovettura. Tuttavia, a mio parere, i pericoli maggiori stanno nel suo smaltimento, quando cioè esso entra nei rifiuti urbani e questi non sono adeguatamente inceneriti ad alte temperature: in effetti, se altre plastiche bruciando producono solo anidride carbonica e acqua, bruciando Pvc in condizioni diverse da quelle dei moderni impianti di smaltimento si producono gas ricchi di acido cloridrico, contenenti anche diossine. Queste, come anche molti dei composti di cloro e carbonio sintetizzati dalla chimica moderna e non presenti in natura, sono veri veleni per la vita vegetale ed animale, come l’insetticida Ddt, i cloro-fluoro-carburi banditi perché responsabili del buco dell’ozono, i gas defolianti utilizzati in Vietnam, i gas asfissianti e molti pesticidi. Di Pvc, però, a differenza degli altri composti di cui abbiamo parlato, si producono enormi quantità: attualmente ben 34 milioni di tonnellate all’anno, un quinto della intera produzione di plastica. Esso è difficilmente biodegradabile e riciclabile, perché spesso reso più stabile da nocivi sali di piombo o reso più morbido da ftalati anch’essi cancerogeni. Vi è chi afferma che il Pvc andrebbe bandito in nome del principio di precauzione, quello che si invoca per mettere da parte vegetali e animali geneticamente modificati. Pensando quanto Pvc viene prodotto ogni anno, e da quanti anni ciò avviene, si può calcolare che, nella indifferenza generale, sul pianeta oggi ne esista quasi un miliardo di tonnellate! Non sarà il caso, almeno, di chiedersi quando fermare questo scempio? Chi produce cloro e Pvc ovviamente protesterà, lanciandosi contro un preteso fondamentalismo ecologista.Ma siamo sicuri che si tratti di questo? In effetti i produttori avrebbero qualche ragione di protestare se lo considerassimo un problema esclusivamente di loro competenza: ma se invece i governi e le pubbliche amministrazioni ne facessero un problema di tutti, dichiarandosi pronti ad agevolare la riconversione di questi impianti verso altre plastiche innocue, anche i produttori sarebbero certamente pronti a cambiare parere e ad agire senza remore, tenendo conto del bene comune. CHE POSSIAMO FARE NOI CONSUMATORI? Certamente riconoscere il tipo di plastica degli imballaggi e contenitori che utilizziamo, andando a vedere il simbolo che, secondo le normative europee, devono riportare: un triangolo con le punte arrotondate con scritto dentro un numero. Il numero 1 corrisponde al Pet (polietilen-tereftalato); il 2 ed il 4 per il Pe-Hd e Pe-Ld (polietileni ad alta e bassa densità); il 3 per il Pvc (cloruro di poli vinile); il 5 per il Ps (polistirolo); il 6 per il Pp (polipropilene). Quando si trova il numero 7, significa che la plastica non è riciclabile. Quindi possiamo evitare di utilizzare e soprattutto di bruciare oggetti di plastica contrassegnati dai numeri 3 e 7.

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