Ferito dalla bellezza
A quattro anni dalla morte, viene tratteggiato il profilo di don Giussani, fondatore di Comunione e liberazione.
Come tutti i grandi maestri della storia, don Luigi Giussani amava la parola. Il contatto diretto con l’interlocutore. Lo scritto veniva dopo, sempre dopo; o direttamente dalla sua penna, o come trascrizione di quello che aveva detto. E lui parlava con periodi lunghi, ricchi d’incisi, come affluenti che andavano ad arricchire il fiume che tendeva a straripare, a testimonianza della passione che lo animava. Ma questa strabordante ricchezza era sempre efficace, precisa. Arrivava immancabilmente al punto. Come sa arrivarci, appunto, ogni grande educatore, le cui parole sono come frecce che non possono mancare il bersaglio.
Il Meeting di Rimini, che quest’anno raggiunge la sua 30a edizione, ne è una forte testimonianza, ancora attualissima.
Nato a Desio nel ’22 – suo padre era socialista, la madre molto religiosa –, Luigi entrò in seminario da bambino, come s’usava allora. Brillante e intelligente, poco dopo l’ordinazione cominciò ad insegnare al seminario. Ma l’impatto con i giovani accese in lui la passione per la missione verso cui si sentiva portato.
S’era verso la fine degli anni Cinquanta. Racconta: «Incontrai sul treno un gruppo di studenti e cominciai a discutere di cristianesimo con loro. Li trovai così estranei alle cose più elementari, che mi venne come irrefrenabile impeto il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto, affinché anche per loro venisse a sorgere il “bel giorno”. Abbandonai perciò, sollecitato dal rettore, l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato».
Sono gli anni del liceo classico Berchet di Milano, gli anni di Gioventù studentesca (Gs). Giussani s’avvia per la sua strada e i giovani che lo ascoltano, incontrando in modo nuovo e sorprendente Gesù, vibrano alla novità del carisma che lo accompagna. La religione diventa un fatto vivo. Lasciandosi alla spalle lo stanco moralismo e lo sfibrante intellettualismo, assume le caratteristiche dell’incontro con una persona: Gesù.
Giussani amava dire che la verità cercata dai filosofi e dai grandi maestri delle religioni di tutti i tempi, per i cristiani si presentava con una novità sconvolgente: un bambinello nato da una ragazza ebrea di quindici anni. «Qual è la prima caratteristica della fede in Cristo? La prima caratteristica della fede cristiana è che parte da un fatto, un fatto che ha la forma di un incontro».
Nella sua tensione a far conoscere Gesù, don Giussani usava le armi che gli erano più naturali. E lui era affascinato dalla bellezza. Anzi, come disse il card. Ratzinger, nell’omelia per la messa di esequie, il suo cuore era ferito dalla bellezza: «Era cresciuto in una casa povera di pane, ma ricca di musica, e così sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza, non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita».
Usava la musica per spiegare Gesù, usava Mozart e Beethoven, ma amava anche i poeti: Eliot, Peguy e Montale, scrittori come Pavese. Tutto diventava materiale utile per trasmettere la novità di Cristo che pulsava nelle vene del Gius, come lo chiamavano familiarmente quelli a lui più vicini.
Fu un colpo duro per lui quando, nel ’65, fu allontanato dai vertici di Gs. Andò in America per diversi mesi, a studiare. Ma il dolore bruciava, dentro. E gli creò anche qualche problema di salute. Gli pareva ancora più doloroso, quel colpo, perché gli proveniva dal suo vescovo, che sentiva particolarmente vicino. Ma si sa: è l’affondo misterioso, il cammino nella “valle oscura”, che devono attraversare coloro che hanno ricevuto il compito di fondare qualcosa di nuovo nella Chiesa. E dopo quel cammino doloroso si trovano, come impressa nel Dna delle cellule, una certezza invincibile: «Io non ho fatto niente, sono uno zero – affermò poi don Giussani –. L’Infinito fa tutto, e da noi non si farebbe niente se non si fosse donato».
Gli anni successivi portano grandi scossoni al tran-tran della storia. Esplode il ’68, la rivolta degli studenti. Molti schemi mentali si frantumano, tante abitudini e modi di fare consolidati crollano. Ma sono anche gli anni in cui nella Chiesa nascono nuovi fermenti: come la comunità di sant’Egidio, i Gen, tanti altri… fra cui Comunione e liberazione, il movimento fondato proprio da don Giussani.
Non che gli interessasse fondare un movimento, a lui. La sua ansia era rivolta a forgiare un “uomo nuovo”: un cristiano che sapesse accogliere la sfida dei tempi e che, cambiando dapprima sé stesso nella mente e nel cuore, sapesse maturare una concezione nuova del mondo. Per trasformarla in vita pulsante, nel lavoro, nella vita privata e nella politica, nei rapporti con gli altri.
In un momento in cui al centro era la politica, anzi lo schieramento partitico, Giussani comprende che a nulla serve fare, se cosa si fa non è radicato in Cristo. «Non importa essere di destra o di sinistra – afferma –. In realtà si può conservare lo spirito borghese anche portando avanti la più generosa azione rivoluzionaria. Essere o non essere nel movimento studentesco, a destra o a sinistra, borghesi o papalini, è un problema che non si pone, non è reale. La scelta che dobbiamo fare è di essere o non essere dentro l’unica tensione cristiana che abbiamo visto, quella tra croce e resurrezione».
Affermava spesso che la questione non è se essere o no laico, ma essere o no “creatura nuova”, che vive l’inizio di una nuova creazione. In un momento storico in cui gli ideali cristiani d’obbedienza, povertà e verginità – i cosiddetti “consigli evangelici” – sembravano tramontati, quasi irrisi di oscurantismo, don Giussani vede in essi il vertice dell’umanità, ciò a cui tutti sono chiamati, in un modo o nell’altro, qualunque sia la particolare storia personale e la vocazione.
Come dirà poi Benedetto XVI nel grandioso discorso di Ratisbona, don Giussani avverte già l’impellente necessità di “dilatare la ragione”. Per guardare più in là, per uscire dai ristretti recinti del proprio povero soggettivismo e aprirsi verso l’unica fonte della nostra felicità. Che sta al di là di noi, in Dio, attraverso i fratelli. «La nostra vita, se obbedisce – dirà parlando dell’obbedienza –, diventa più grande di quanto mai sarebbe stata, cioè si realizza. L’obbedienza per noi, cioè il seguire il disegno di un Altro, il fare la sua volontà è ragionevole solo in un caso: deve essere consapevole che in essa sta la riuscita della vita».
Gli ultimi anni della vita di don Giussani sono segnati dalla malattia. Prima un tumore all’intestino, poi l’avanzare inesorabile del Parkinson che gli crea problemi di fonazione e deambulazione. Parlare alle folle, cosa che egli aveva vissuto con vero spirito di missione, gli provoca ora grandi sofferenze.
In quegli ultimi anni, come un ritornello, ritorna sulle sue labbra la parola “misericordia”. Quasi volesse congedarsi con essa da questa vita. «Quello che la ragione capisce è il perdono – diceva –. Della misericordia non si capisce nulla». Poi afferma: «La cosa più bella da dire è che dobbiamo essere misericordiosi, ed avere misericordia gli uni verso gli altri… di fronte a tutti i peccati della Terra sarebbe ovvio dire: “Dio distrugga questo mondo così!”. Invece Dio muore per un mondo così, diventa uomo e muore per gli uomini, tanto che questa misericordia diventa il senso ultimo del Mistero».
Parole che non scivolano via, dimenticate. Ma che sono raccolte, fatte proprie, dagli appartenenti a Comunione e liberazione, dai Memores Domini, dai sacerdoti della Fraternità di San Carlo Borromeo… da tutti coloro che sono stati toccati dal carisma del sacerdote brianzolo. E che stanno diventando patrimonio comune della Chiesa, come tutta la sua grande opera.