Il fenomeno Don Giovanni
Don Giovanni, trionfo di Mozart a Praga il 20 ottobre 1787, è un monumento della musica e del teatro musicale. Punto d’arrivo di una lunga tradizione barocca, apertura verso suggestioni preromantiche, ma, in definitiva è un mondo universale.
Logico allora che chiunque si metta ad affrontarlo si trovi di fronte ad una realtà prismatica, come è la vita, in cui dialogano con naturalezza apparente i generi diversi, il lirico e il drammatico, la commedia, la buffoneria e i l religioso. Difficile e facile il Don Giovanni, che può essere un trabocchetto per chi non faccia attenzione ad una musica e ad una parola chiara e al contempo allusiva, senza mai essere greve, con uno straordinario equilibrio. Equilibrio, e fragilità: ecco i termini per il “dramma giocoso in due atti” scritto da Lorenzo da Ponte e musicato da Mozart che lo chiamava semplicemente “opera buffa”.
Solo che, in Amadeus, la comicità non è mai separata dalla stasi, dal lirismo, dal sentimento pacato. Ecco perché l’azione concitata del Don Giovanni e della società – nobili e plebei- che gli gira intorno e da lui dipende trova pause quasi estatiche (arie, quartetti) o di dramma raggelato (atto II, scena del Commendatore) e si serve di concertati- in cui orchestra e voci dialogano con colori diversi – assai mobili, ma sempre tenuti sotto controllo da un ferratissimo Wolfgang.
Tutto questo per dire che Don Giovanni esige rispetto e umiltà come si fa con i capolavori assoluti, anche cercando scenicamente di attualizzarli. Ma senza violentarli e fargli dire ciò che non dicono.
Sotto questo aspetto delude la regia di Graham Vick al romano Teatro dell’Opera che “parla troppo”, presentando solo un Mozart vorticoso, erotico, superficiale, puntando a un teatro dell’assurdo più nell’intenzione che nei risultati. Un neo-barocchismo purtroppo privo di quella finezza che il musicista Mozart usa anche nel buffo.
Qui sul palco un grande albero spoglio che don Giovanni usa come saliscendi al pari della piramide lignea che si alza e si abbassa facendo intravvedere i figuranti e il coro (discreto), “invenzioni” come Elvira già monaca all’inizio, il Finale primo confuso e il Finale secondo – la scena del Commendatore sotto lo sguardo della Sindone (!) –priva di tragicità e risolta con i l “dito” michelangiolesco su Don Giovanni. Il quale poi risorge e sta su un albero a guardare con delizia i sopravvissuti, diventati altri lui.
Ma per Mozart-da Ponte Don Giovanni non risorge, rifiuta sino alla fine la mano tesa di Dio (attraverso Donna Elvira) e si autocondanna, anche nell’edizione viennese che elimina il sestetto conclusivo ”Questo è il fin di chi fa mal”.
Con tutto questo, il direttore francese, al suo debutto romano, Jérémie Rhorer se la cava bene con l’orchestra, a parte certi insieme pesanti, e con i cantanti, per fortuna: la stupenda Donna Anna di Maria Grazia Schiavo, il perfetto Don Ottavio di Juan Francisco Gatell (l’aria “Il mio tesoro” è da manuale) ed anche gli estroversi Alessio Arduini e Vito Priante, cioè Don Giovanni e Leporello.
Altra cosa e altro testo “L’empio punito” di Alessandro Melani, 1669, al Teatro di Villa Torlonia, un piccolo gioiello neoclassico, per il Reate Festival. Tre atti scritti da Giovanni Filippo Apolloni con ascendenza chiara da El burlador de Sevilla y Convidado de pedra di Tirso de Molina. Solo che qui l’azione è spostata nell’antica Grecia, nel regno di Macedonia fra vari ingorghi amorosi, e Don Giovanni si chiama Acrimante mentre Leporello è i l servo Bibi, che vorrebbe essere come il maestro seduttore.
Il Baroque Ensemble diretto con perizia da Alessandro Quarta è perfetto come suono e musicalità. Sul palco la scena azzurra con due vetrate semoventi è moderna ed efficace,si squaderna luminosa così che il giovane e bravissimo cast può dar libero sfogo sia ai recitativi arie e duetti e sia ad una recitazione vivace ma leggera, giusta, grazie alla regia chiara di Cesare Scarton. Ben fatto, questo antenato di Mozart.