Felice e gli artigli della morte
Per due anni ne avevo sentito parlare. Da Virginia, solo da lei. Un punto di vista parziale senza dubbio. Tuttavia quell’uomo mi intrigava, anche se non lo conoscevo nemmeno in foto, perché la mia amica aveva voluto cancellarlo dalla sua vista. Era un’ombra o poco più. E tuttavia, giorno dopo giorno, grazie ai brandelli dei suoi racconti, assumeva contorni meno vaghi. Un dettaglio dopo l’altro rubato alla ritrosia della donna svelava un uomo tormentato, assetato di vita, affamato di possesso, sempre in bilico tra carpe diem e autodistruzione. Tutto mi incuriosiva di lei, quindi anche quell’uomo che l’aveva resa sposa e madre.
La telefonata mi raggiunse mentre cercavo di debellare a fatica la sonnolenza in autostrada: «Felice è morto stanotte. Un ictus. Volevo avvisarti». Virginia si sforzava di apparire distaccata, ma tradiva incertezza e sospensione. Troppo aveva sofferto per colpa sua, forse troppo l’aveva amato. Le chiesi se l’incidente fosse atteso. «Da tempo non voleva più controllare la pressione arteriosa», rispose. Poi una pausa: «Ho trascorso una notte impossibile. Te la racconterò a Maratea».
Maratea, appunto. Un’ubriacatura di emozioni visive e olfattive. Lì contavo di riprendere le fila della nostra amicizia. Ma le ultime vicende si sovrapposero all’attesa dell’incontro a lungo dilazionato. Non dico che tra noi due si frapponesse Felice, ma quella morte era lì, ingombrante e inequivocabile.
Ben presto la mia curiosità si concentrò su un dettaglio delle vicende che avevano posto termine all’esistenza di Felice: l’ultimo istante prima dell’ictus. O meglio, l’infimo lasso di tempo intercorso tra l’inizio e la fine del processo di rottura di un certo vaso cerebrale dell’uomo. Un attimo e una vita intera. Cosa gli era passato nella mente in quei frangenti? Sentimenti, angosce, una certezza forse? In quella mia curiosità non c’era nulla di morboso, tanto meno di necrofilo, ma solo un’attesa esistenziale.
Nelle luci «del tramonto più bello del mondo», come dice il poeta, trovai un momento di quiete nelle note severe del Requiem di Victoria. Una composizione poco conosciuta, forse perché troppo austera. Le sue essenziali melodie stridevano nell’inebriante spettacolo cromatico che aveva di fronte. Eppure mi parlavano: «Non fare il cronista di provincia alla caccia di pettegolezzi che tramontano in un’uscita di gazzetta. Sii asciutto come Victoria».
Da Michele Zanzucchi, NIENTE E' VERO SENZA AMORE (Città Nuova, 2015)