Federalismo fiscale, si parte
Lo spirito di collaborazione in Parlamento ha maturato i contenuti di una riforma strutturale.
Duplicazione di compiti e funzioni, sprechi e inefficienze, opacità nell’individuazione delle responsabilità: questi mali della macchina pubblica italiana sono ben conosciuti e mal tollerati da tutti i cittadini. Una macchina pubblica che peraltro è capace di eccellenze, che non riesce però a generalizzare. La legge (mentre scriviamo manca solo un passaggio al Senato) sul “federalismo fiscale” si propone proprio di mettere ordine attraverso la definizione delle entrate per ogni livello: comunale, provinciale, di città metropolitana, regionale, statale e stabilendo chi-fa-cosa. Sulla base di un principio ispiratore, che è poi la lettera dell’articolo 119 della Costituzione: ogni ente deve avere autonomia di entrata e di spesa, superando quanto più possibile il sistema di finanza “derivata” (per il quale le entrate di regioni, province e comuni derivano in gran parte da trasferimenti statali). Adesso prende avvio un sistema di entrate costituito da: tributi propri di ciascun ente, compartecipazioni ai tributi erariali (quelli di cui rimane titolare lo Stato), trasferimenti statali con finalità perequative (per redistribuire risorse a fini di equità).
All’attuazione di questo principio basilare, si accompagnano altre disposizioni fortemente innovative: innanzitutto i criteri per stabilire la quantità di risorse che ogni ente deve avere. Compiuto (per ora solo provvisoriamente) lo sforzo di stabilire chi-fa-cosa, il costo dell’esercizio di tali funzioni e compiti sarà stabilito non più sulla base della spesa storica, quanto cioè fatto sinora (che premia chi più spende, incentivando l’inefficienza), bensì sulla base di un costo standard (ancora da individuare), vale a dire di una misura che, riferita a criteri di efficienza e di efficacia, mira a definire l’effettivo costo di un servizio.
La sfida è notevole, poiché il costo standard sarà l’unità di misura che verrà gradualmente utilizzata per stabilire il costo dei servizi essenziali (si pensi alle prestazioni sanitarie, all’istruzione o all’assistenza), che devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale. Per tali funzioni, il finanziamento agli enti sarà integrale, con interventi dal fondo perequativo per i territori che da soli non ce la fanno, ma misurato sul fabbisogno standard. Conseguenze? Le prestazioni dipenderanno dalla buona amministrazione. Un sistema di questo genere avvicina i luoghi delle decisioni ai cittadini e quindi ne aumenta il controllo: tra i rovesciamenti cui tende questa legge, questo forse è il più importante.
Anche il pagamento dei tributi uscirà dall’anonimato e dalla indefinita finalità: si dovrebbe arrivare alla consapevolezza del “si dà tanto a chi e perché” (persino, si prevedono tributi di scopo, destinati cioè a perseguire determinate finalità). Ecco tutti gli elementi per attivare quel processo di “rendiconto” dei politici nei confronti dei cittadini. Questi ultimi dovranno approfittarne, controllando l’uso delle risorse (e molte norme della legge puntano ad accrescere la trasparenza dei bilanci) e chiedendo conto ai politici delle loro scelte. Questo aspetto è talmente rilevante che non sono esagerate le letture che vedono in questa legge un momento rifondativo del «patto fiscale che è a fondamento dello Stato», occasione per ricostruire un rapporto fiduciario tra cittadini e amministrazione pubblica. Con benefici anche nella lotta all’evasione fiscale, che chiamerà in causa gli enti locali.
E come la mettiamo con il Sud e, in generale, con le aree in difficoltà del Paese? Da un lato, il testo della legge presenta un quadro, frutto del crogiuolo parlamentare, che offre una serie di garanzie per evitare i temuti scollamenti sociali e l’Italia a più velocità: dal principio solidaristico che presidia i fondamenti della legge al fondo perequativo, dal “patto di convergenza”, finalizzato proprio al raggiungimento degli stessi livelli nei vari territori, agli obiettivi di rimozione degli squilibri economici e sociali che rappresentano un altro punto qualificante dell’intera costruzione.
Per essere efficaci, però, tali previsioni devono accompagnare un processo virtuoso di responsabilizzazione. Tra l’altro, oltre a non consentire sprechi, la legge prevede premi per le amministrazioni più virtuose; e la virtù dipenderà anche dai cittadini e dal loro adempimento dei doveri fiscali, che, se ben compiuto, porterà alla riduzione della pressione fiscale.
Tutto bello, dunque? Certamente, no. Restano i nodi relativi alle conseguenze sulla finanza pubblica, al riassetto istituzionale ed amministrativo (non è stato ancora varato il codice delle autonomie locali, né definite le funzioni fondamentali di comuni, province, città metropolitane), all’esercizio della delega da parte del governo, che ha promesso partecipazione di enti e Parlamento, ma che va atteso alla prova dei fatti, ai tempi di attuazione, che si misurano in anni. Questioni che hanno motivato l’astensione del Partito democratico (era stato il centro-sinistra nel 2001 a varare la riforma regionalista che è alla base della nuova legge) e il voto contrario dell’Udc, mentre l’Italia dei Valori ha votato a favore.
Nel complesso il Parlamento si è mostrato coeso ed il testo è frutto di una collaborazione che ne ha maturato i contenuti. Un vero successo per la maggioranza e soprattutto per i ministri Bossi e Calderoli, che hanno perseguito la via del dialogo. Plaudiamo a questo risultato, perché una riforma così ambiziosa non avrebbe speranza di venire attuata senza il coinvolgimento di tutta la rete amministrativa, a qualunque colore appartenga. Si apre ora anche una sfida formativa, che deve coinvolgere amministratori e cittadini, per diventare, ciascuno per la propria parte, soggetti attivi della riforma.