Fede popolare e modernità

Perché queste tradizioni sopravvivono alla logica economico-tecnologica che ci sta stritolando? In queste feste convivono sacro e profano, e che talvolta il sacro è più profano del profano e che viceversa il profano è più sacro del sacro

Mi è capitato di partecipare il 14 luglio scorso alla “festa popolare” di Santa Rosalia a Palermo, u festinu, come dicono sotto il Monte Pellegrino, 393a edizione del ricordo della peste sconfitta nel 1624. È la versione “laica” della festa religiosa, che cade il 4 settembre. Il Festino coinvolge tutta la città, che accompagna un carro nell’itinerario rettilineo tra Piano Palazzo e il Foro italico in un tripudio di corpi, colori e odori. 300 mila persone, forse qualcuna di più, in una folla a tratti impenetrabile, come nella sosta ai Quattro Canti, dove il sindaco grida la celebre frase: «Viva Palermo e Santa Rosalia», porgendo un omaggio floreale alla Santuzza, rappresentata in effige sul carro a forma di barca. Mi accompagnava Alberto, un vetero-comunista, un uomo di grande cultura e di squisita affabilità, che non disdegnava minimamente di professarsi marxista e nel contempo di rendere omaggio agli altarini di santa Rosalia nei vicoli più angusti della città.

Fendendo con Alberto la folla alla Vucciria, a Piazza Marina, alla Cattedrale, non potevo non interrogarmi sulla fede popolare che s’incontra ai quattro angoli del mondo. Mi sono tornati in mente altri due carri giganteschi: il primo mi riportava in Nepal, a Bhaktapur, luogo principe dell’arte newari, nel corso della Bisket Jatra, festa centrata su un grosso e alto carro di legno – il poderoso Bhairab – che trasporta le statue degli dèi dei due luoghi di culto principali della città (Bhairab appunto e Betal, divinità amiche) da una piazza all’altra, cioè da Taumadhi Tole e Khalna Tole, trainato da grosse e lunghe funi. Il carro è conteso da due partiti in opposizione, mezza città contro l’altra metà: chi vince ha il diritto di conservare le statue delle divinità per una settimana. Ogni anno la calca provoca qualche morto, normalità sul posto. Ad accompagnarmi c’era un giovane ricercatore indiano, Bradip, seguace appassionato di Nietzsche ma incuriosito dalla fede popolare, ai cui riti lui stesso non si sottrasse: suonò le campanelle votive e offrì un fiore in un tempio non so più se indù o buddhista. Aveva lo sguardo lucido.

Il terzo carro in realtà era un camion, sulle rive del Lago Titicaca, in Bolivia, a Copacabana, che non è la spiaggia di Rio de Janeiro. La Virgen de Candelaria (o de Copacabana), scolpita da Francisco Yupanqui, nipote dell’imperatore inca Tupac Tupanqui, è custodita in una cappella chiamata Camarín de la Virgen de Candelaria, e non è mai stata spostata, perché secondo una tradizionale profezia il suo allontanamento farebbe straripare il lago Titicaca. Nel weekend in cui avevo visitato la cittadina, gli aymara peruviani, ma anche boliviani, scendevano a far benedire le loro auto e i loro camion nuovi, decorati con ghirlande di carta e di fiori, facendoli aspergere dall’acqua benedetta dei francescani, e aspergendole essi stessi con quell’altra acqua benedetta, o piuttosto sacra, che risponde al nome di alcol. Un enorme truck era stato trasformato nel carro principale, in una confusione indescrivibile. Un etnologo agnostico uruguayano, Carlos, mi fece da guida, non sottraendosi alla ritualità del “battesimo da alcol” e dal bacio alla statua della Virgen.

Perché la fede popolare attira tanta gente, anche chi normalmente non è certo un baciapile? E perché queste tradizioni sopravvivono alla logica economico-tecnologica che ci sta stritolando? La domanda è pertinente. Ci si può rispondere, un po’ da bigotti, con l’argomentazione che il desiderio di sacro è insito nel cuore umano ed è insopprimibile. Ok. Oppure, come dicevo ad Alberto, che in queste feste convivono sacro e profano, e che talvolta il sacro è più profano del profano e che viceversa il profano è più sacro del sacro. D’accordo. O, ancora, che queste tradizioni, usando un occhio etnografico, coagulano le ferite e le aspirazioni di popoli interi, che le “divinizzano”. Giusto pure questo. Ma Alberto, Bradip e Carlos ci dicono ancor più che la religione è relazione, re-ligio, legame. E che è soprattutto dal basso, dalla relazione tra gli umani, che nasce l’aspirazione al divino. Il santo è altra cosa, è di un livello diverso, ma nasce dal coacervo di sacro e profano di cui la fede popolare vive.

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