Fece rivivere la Firenze del Savonarola
Quando non tutti, in Italia, possedevano un televisore e spesso si approfittava di quello dei vicini per assistere ai programmi in onda, mi capitò di vedere da ragazzo un vecchio film del 1936, Il mulino sulla Floss. Ricordo soprattutto la drammatica scena finale quando la protagonista Maggie Tulliver e suo fratello Tom muoiono in barca durante un’alluvione. Muoiono riconciliati, mentre in vita erano stati spesso divisi dalle convinzioni del loro secolo, l’Ottocento, secondo le quali la donna doveva rimanere soggetta all’uomo. Ignoravo, all’epoca, che il film era la trasposizione sullo schermo del romanzo omonimo di una delle più importanti autrici vittoriane, Mary Ann Evans (1819-1880), meglio nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot: espediente usato in quel tempo dalle scrittrici che rifiutavano di farsi classificare nella letteratura minore “per signore”. A muovere la Evans era stato, per la verità, anche il desiderio di preservare le sue opere dal pregiudizio sociale che la additava compagna di un uomo sposato. Fu solo dopo aver raggiunto una certa fama che rivelò la propria identità, con scandalo di molti lettori. Non credente, incline al libero pensiero ma di grande equilibrio morale, tutt’altro che avvenente eppure dotata di fascino irresistibile, era scontato che la Eliot si avviasse a diventare, soprattutto nel corso del XX secolo, una figura di riferimento del movimento femminista.
Tutte le sue opere più famose – dal citato Mulino sulla Floss ad Adam Bede, da Silas Marner a Middlemarch – rivelano l’osservazione fedele dell’emarginazione sociale nelle piccole città e dell’ipocrisia dei signorotti di campagna che era stata anche di Jane Austen. Di lei i lettori dell’epoca apprezzavano non solo le descrizioni realistiche di questo piccolo universo provinciale, ma anche lo stile e la chiarezza del pensiero, la capacità di immedesimarsi nei tratti umani dei suoi personaggi, l’equilibrio di una scrittura che mescola in modo magistrale limpidezza, acutezza di introspezione psicologica e ironia.
Gli interessi della scrittrice britannica non si limitarono tuttavia alla provincia inglese. L’esempio più clamoroso è rappresentato da Romola, romanzo del 1863 ambientato nella Firenze del tardo XV secolo, che tra i molti personaggi include anche Girolamo Savonarola, il celebre domenicano che tentò il rinnovamento della Chiesa e della società del proprio tempo fino al sacrificio di sé. Romola, riproposta integralmente e in nuova traduzione da Clichy in un volume di oltre 600 pagine, è certamente l’opera più ambiziosa della Eliot, che intese così riallacciarsi alla tradizione storica rappresentata sia dall’amato Walter Scott sia da Alessandro Manzoni, che proprio sulle rive dell’Arno era andato a rivedere linguisticamente il suo capolavoro. E ciò nella convinzione che le suggestioni di un passato anche remoto risultano illuminanti per il presente, così come le aspirazioni e le lotte di oggi valgono a interpretare meglio conflitti e passioni di ieri.
La Firenze dove ella soggiornò nel 1861 per documentarsi e impregnarsi della sua storia e della sua arte in vista del romanzo non era stata ancora sconvolta urbanisticamente per essere adeguata al ruolo di capitale temporanea del neonato regno d’Italia, e pertanto rispecchiava più fedelmente le memorie rinascimentali che la Eliot si apprestava a rievocare con un bagaglio culturale a dir poco notevole per una donna della piccola nobiltà rurale come lei, che aveva dovuto interrompere gli studi a diciassette anni per accudire alla casa paterna e continuarli da autodidatta. Aveva infatti conoscenze di storia, filosofia, musica, arte, teologia, scienza, matematica, biologia; leggeva in originale testi latini, greci ed ebraici, francesi e tedeschi, italiani e spagnoli.
Con i suoi riferimenti eruditi e la sua folla di personaggi storici e d’invenzione la stesura di Romola costò alla scrittrice «fatiche inenarrabili» dovute anche ai suoi ricorrenti periodi di depressione. La vicenda abbraccia il periodo cruciale dalla morte di Lorenzo il Magnifico (8 aprile 1492) fino al rogo dello scomunicato Savonarola in piazza della Signoria (23 maggio 1498) e si snoda come un prezioso arazzo intellettuale, artistico, religioso e sociale della città medicea, intrecciando abilmente gli itinerari della giovane de’ Bardi, sposa tradita e infelice, e del profetico domenicano di San Marco: «Due universi distanti per genere, età, formazione, carattere, fede – osserva il traduttore Giovanni Maria Rossi –, ma che con l’intervento demiurgico dell’autrice trovano delle affinità e dei riflessi proprio in una comune tensione morale che nella dialettica sofferta tra osservanza e disobbedienza scompiglia le regole e i doveri imposti dalle leggi: del matrimonio fallito per Romola, dell’invadente gerarchia ecclesiastica per Savonarola».
Straordinariamente viva è l’immagine del frate ribelle restituita da una Eliot fortemente sensibile ai problemi religiosi: come quando Savonarola convince Romola a ritornare dal marito in nome della santità del matrimonio e a trovare un nuovo senso alla vita dedicandosi a sollevare gli ultimi e gli infelici: ciò che avverrà durante la carestia e la peste che flagellano Firenze nel 1497. E viva è pure, nella sua evoluzione psicologica e morale, la protagonista, dotata di saldezza morale e spirito di ribellione che sembrano rispecchiare gli stessi dell’autrice.
Tra i molti episodi memorabili, l’ultimo colloquio-scontro tra la nobile de’ Bardi e il frate cui deve la propria rinascita spirituale: lei venuta a impetrare il suo intervento per il padrino accusato di complotto mirato a restaurare i Medici, lui riluttante a immischiarsi nelle funzioni dello Stato e convinto che l’avvento del regno di Dio sulla terra giustifichi la morte di pochi purché siano vanificate le tirannie «che soffocano la vita italiana e promuovono la corruzione della Chiesa». E Romola: «Il regno di Dio è qualcosa di più vasto; e allora permettetemi di rimanerne fuori, in compagnia delle persone che amo!». Termina così l’impossibile dialogo tra queste due grandi anime.
Come Il mulino sulla Floss, anche Romola ebbe una riduzione per lo schermo in un film muto del 1924. Purtroppo la difficoltà rappresentata da un testo così complesso indusse regista e sceneggiatore a semplificare di molto la vicenda, privilegiando la spettacolarità delle grandi scene di massa girate in una Firenze rinascimentale. A scapito però della profondità psicologica dei personaggi e col risultato che «lo spirito di George Eliot sembrava perduto per sempre».