Il fasto ipogeo di Bulla Regia

Unicità dell’antica capitale numida, dove sant’Agostino tuonò contro gli spettacoli teatrali
Cortile sotterraneo con i suoi mosaici sul pavimento in una casa di Bulla Regia. Foto: Wikimedia Commons, Meryem Athimni

Gran viaggiatore dall’Africa proconsolare all’Italia, sant’Agostino non poteva mancare di fare una puntata anche a Bulla Regia, città della Numidia collocata sulla via che da Cartagine portava a Ippona, dove lui era vescovo. Aveva 46 anni e ne erano passati quattro dalla sua elezione quando vi fece una sosta nel 399, per confermare la comunità cristiana locale in occasione della festa dei santi Maccabei. L’incontro avvenne nel teatro del II-III secolo, epoca del massimo sviluppo dell’antica capitale di uno dei tre regni numidi formatisi alla morte di Massinissa nel 148 a. C. (di qui l’appellativo Regia) e annessi alla fine del I secolo d. C. ai domini romani. Nell’omelia, pervenutaci grazie alla trascrizione curata dai suoi segretari e poi rivista, come al solito, dallo stesso Agostino, il santo vescovo prende spunto dalla testimonianza dei sette fratelli martiri per esortare l’uditorio al distacco dai beni terreni, condizione indispensabile per essere discepoli autentici di Cristo.

La conclusione del lungo discorso, non a caso svolto in un luogo adibito a rappresentazioni teatrali spesso licenziose, è un vibrante rimprovero ai cristiani che cedevano a quel richiamo: «Fratelli, abitanti di Bulla, tutto all’intorno, in quasi tutte le città a voi vicine la dissolutezza dell’empietà non ha più voce. Non vi vergognate che solo presso di voi si vende l’immoralità? O magari provate soddisfazione persino a far commercio di immoralità, oltre a frumento, vino, olio e tutte le altre cose poste in vendita nelle piazze rifornite da Roma, o mercati? […] Con grande dolore vi diciamo queste cose: voglia il Cielo che la ferita del nostro cuore risani con la vostra emendazione! […] Cristiani, prendete per voi questa decisione: non frequentate i teatri».

Agostino parlava per esperienza: da giovane, infatti, prima della sua conversione, aveva subìto anche lui il fascino perverso degli spettacoli teatrali e dei sanguinosi ludi gladiatori. L’accenno poi al frumento, vino, olio e ad altri generi di commercio riguardava ciò che fece la ricchezza di questa città di origine punica che Adriano aveva elevata al rango di colonia ma il cui splendore, all’epoca del citato sermone, era già in declino: fenomeno comune anche alle altre città della provincia proconsolare africana.

Oggi Bulla Regia è uno dei siti archeologici più rilevanti della Tunisia. Solo in parte rimessa in luce, la città sorge nella vallata del fiume Bagradas (l’attuale Megerdā), addossata ai declivi del gebel Rebia ricoperti da oliveti, tra dolci colline coltivate a grano – ricordo di quando questi territori furono il granaio di Roma. La visita inizia dal piccolo Antiquarium e dalle monumentali terme di Julia Memmia, donate alla cittadinanza da una ricca matrona alla fine del II secolo d. C. Una strada lastricata conduce al teatro dove Agostino tenne il suo famoso discorso. Da lì poi si arriva al foro col suo Capitolium, agli altri templi dedicati a divinità come Apollo, Iside, Baal, alle due basiliche cristiane del VI secolo, al mercato e al forte bizantino.

Incantano i resti di lussuose dimore con i loro raffinati mosaici pavimentali, fonte preziosa di informazioni sullo stile di vita degli antichi abitanti, sui loro svaghi e credenze, nonché sulla flora e sulla fauna dell’epoca. Gran parte di essi sono ancora in situ, altri sono stati trasferiti a Tunisi, dove – insieme a quelli provenienti da altre località del Paese – formano il vanto del Museo del Bardo. Ma la vera sorpresa, ciò che rende Bulla Regia unica fra le città romane del Nord Africa, è il modello architettonico rappresentato dagli ambienti sotterranei di queste case, un vero colpo di genio per risolvere un grosso problema della zona: il caldo torrido. I fortunati proprietari, infatti, durante le ore più soffocanti del giorno s’intrattenevano nei freschi ambienti sotterranei costituiti da atrio, triclinio, stanze da letto e bagni disposti attorno ad un cortile a peristilio, fonte di luce e di aria: quasi una seconda casa che per lusso, decorazioni e giochi d’acqua nelle fontane gareggiava con quella dei piani superiori, i quali venivano invece abitati nelle ore serali, quando il clima diventava più gradevole.

Gli esempi più notevoli e meglio conservati di questa costruzione ipogea dove gli occhi abbacinati dal sole trovavano riposo in una deliziosa penombra sono le case del Tesoro, della Pesca, della Caccia, della Piccola Caccia e di Anfitrite. Quest’ultima, erroneamente chiamata dalla nereide di tal nome, confusa con Venere, conserva ancora nelle stanze del piano interrato i mosaici più strepitosi di Bulla Regia: come quello dove la dea con aureola viene portata in trionfo da una coppia di mostri marini, mentre due amorini l’incoronano e altri due a cavallo di delfini le porgono gli strumenti per farsi bella, in uno scenario acquatico ricco di pesci. La vivacità dei colori, l’accurata resa delle ombre e delle forme a tutto tondo – una caratteristica dei mosaici africani – conferiscono a questo tappeto di pietra l’aspetto di un dipinto.

Tutte queste dimore presentano volte a botte alleggerite da tubi di terracotta incastrati l’uno nell’altro e rivestiti di calce spesso decorata, secondo una tecnica edilizia tipica del Nord Africa. Mentre le pareti, là dove l’intonaco è caduto, mostrano una tessitura “a telaio”, ottenuta con pietrame legato con malta e contenuto tra forti pilastri di pietra verticali: il cosiddetto opus africanum. Di questo sistema, già diffuso in epoca punica e ripreso poi dai romani, esistono molteplici esempi anche a Pompei. Ma a questo punto siamo già tornati a casa, con un po’ di nostalgia per l’arroventata Bulla Regia, i suoi trascorsi fasti e le memorie di sant’Agostino.

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