Fare squadra, ovunque
“La nostra è la vittoria di una grande squadra”, esulta Montezemolo a Maranello. “Mai come questa volta devo ringraziare la squadra, la Ferrari, che ha compiuto un lavoro straordinario”, gli fa eco Schumacher, da Suzuka, dietro una selva di microfoni. “È bello dividere questi momenti di gioia con i meccanici che stanno sempre nell’ombra “, conferma Valentino Rossi dal circuito della Malesia. “Vincere in gruppo è persino più bello che trionfare da soli”, dichiarano da Cuba gli schermidori con l’oro mondiale al collo. “Con una squadra così ogni traguardo è possibile”, aveva appena affermato Totti dopo la qualificazione alla fase finale degli europei di calcio. Un memorabile, sportivamente parlando, inizio d’autunno ci conferma che l’Italia che vince è, ancora una volta, l’Italia di squadra. L’estate non ci ha negato successi azzurri negli sport individuali, su tutti il salto mondiale di Gibilisco nell’asta, ma quando mettiamo in campo un team, dal basket alla pallavolo, dal rugby al calcio e via vincendo, subiamo una inattesa metamorfosi. Per propensione atavica amiamo poco la fatica individuale, il sudare da soli, l’allenamento lontano da uno sguardo amico, preferendo scambiare due parole mentre corriamo, dividere camere d’albergo e spogliatoi con i compagni, confrontarci per ore su tattiche e schemi del gioco di squadra. Lo sanno i coach sportivi, gli allenatori delle panchine azzurre, che hanno saputo far leva su questo spirito di gruppo dei propri atleti per portarli al successo. E, purtroppo, lo sanno anche gli allenatori esonerati in corsa per la scarsezza dei risultati attribuita, spesso giustamente, al non aver saputo “creare gruppo”. Via Cuper, sulle panchine di serie A, per la prima volta nella storia, siedono solo tecnici italiani: i più bravi nel fare squadra? Tutti per uno, uno per tutti Fuori dalla realtà sportiva, in verità, non brilliamo sempre per spirito di squadra, dimostrandoci piuttosto refrattari a collaborare in ufficio, a fare gruppo dentro il reparto, a solidarizzare sui banchi di scuola, spesso scaricando responsabilità e spargendo giudizi. Non parliamo poi della politica, dove è difficile arrivare più in là di convenienti alleanze, nonostante i proclami del “tutti per uno, uno per tutti”. Eppure il tema di fare eccellere il team, nell’impresa come nello sport, nella politica come nella sanità, è sempre più di attualità. Nel suo riuscito format Gioco di squadra, proposto dentro lo Speciale TgUno, Brando Giordani ci ha mostrato come, ad esempio, vengano scelti i piloti che faranno parte delle Frecce tricolori, in base alla sensibilità nel volare fianco a fianco piuttosto che all’abilità acrobatica; o, come l’ospedale San Camillo, a Roma, abbia saputo realizzare un eccellente modulo per le emergenze, invidiatoci persino dagli Usa e basato sul lavoro di équipe. In vista c’è un ritratto di un team sempre nell’occhio delle telecamere, arbitro, guardalinee, quarto uomo. Ovunque ci si chiede quale sia il sistema capace di realizzare il pieno potenziale di ciascuno dei membri di una organizzazione, quanto e come possa aumentare o diminuire l’energia di ciascuno in base alle relazioni che si hanno con gli altri, quale compito spetti in tal senso ad un leader. Di certo a questa figura è richiesto di saper mettere in luce la competenza di ciascuno, dunque, ma soprattutto un ottimo approccio “emotivo”, o meglio, come oggi si afferma, la capacità di essere intelligenti nella sfera delle emozioni. Marilena Ferrari, leader di Art’è, è una imprenditrice di successo nel campo della realizzazione e distribuzione d’opere d’arte. “Il leader del futuro è un leader irrazionale – ha dichiarato -. La razionalità sta lasciando campo libero all’emozionalità. Oggi trovano spazio i leader che portano avanti con grande consapevolezza la loro umanità, la loro emozionalità, la loro sensibilità. A condizione che abbiano imparato ad obbedire, altrimenti non sanno nemmeno dove andare”. Peter Senge, guru mondiale nel campo del management, parla di “organizzazione che apprende”, e sostiene che vi sono esempi sorprendenti di come “l’intelligenza del gruppo superi l’intelligenza dei singoli membri e di come i gruppi sviluppino capacità e producano risultati straordinari”. Ed ancora “promuovere il team all’interno delle organizzazioni genera implicazioni positive sullo sviluppo personale e quindi sulla felicità dei singoli”. Da soli è difficile La filosofia, sul lavoro in équipe, di Pier Luigi Celli, quotato manager di UniCredito Italiano, è semplice: “”Da soli è difficile” è la mia vision. Se il dubbio è buon punto di partenza per porsi domande che non abbiano soluzioni banali, per le domande difficili è sempre meglio avere qualcuno che le analizzi con te, offrendo altri punti di vista, un giusto tributo ad una umiltà di fondo”. Riguardo alla leggendaria “solitudine del capo” offre osservazioni interessanti: “È una condizione che spesso viene cercata e sottolineata solo perché non si vuole condividere la responsabilità con altri, e legittimare una sacralità del ruolo. Un vero capo non è quello che ha una soluzione per tutti i problemi, ma è quello che fa convivere la sua gente anche con la mancata soluzione dei problemi. È questo il difficile. Se andate a guardare i grandi sacerdoti del management decisionista troverete che non hanno discendenza e, in genere, lasciano nei guai le aziende che avevano tenuto in piedi attorno a sé stessi”. Mancanza di coaching, si direbbe in gergo. Ma come ottenere allora dai propri collaboratori una piena condivisione della vision? Celli usa i toni della passione nella sua risposta: “Un vero leader dà sempre origine ad una storia, un racconto memorabile per quelli che lavorano con lui, che si trovano attori e, insieme, impasto di una vicenda che li comprende, li sovrasta, li trascina e li interpreta. Solo in queste condizioni è possibile chiedere sacrifici che altrimenti sarebbero incomprensibili”. Il senso di appartenenza Su questo tema sono interessanti le riflessioni di Paolo De Crescenzo che, dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere come atleta nella pallanuoto, siede ora sulla panchina della nazionale: “Alla base del rapporto con e tra i giocatori, essenziale e vitale è l’appartenenza al gruppo e la condivisione dei princìpi e delle regole. Ma prima di tutto appartenere, appartenere, appartenere. I giocatori, per diversi che siano, “appartengono” alla squadra ed ognuno ne è protagonista. Nel momento del bisogno sono tutti protesi verso chi vive una fase difficile ed ogni vittoria appare come la vittoria di tutti, ogni sconfitta è la sconfitta di tutti”. Ma come si alimenta questa appartenenza? “Con una elevata motivazione, ogni volta diversa. Ecco l’aspetto empatico: calmare, dare fiducia, stimolare, seconda di come senti la squadra”. A guardare i risultati del “settebello” non si può che dare ragione alla sua filosofia. È significativo notare come De Crescenzo sia riuscito anch’egli a riscuotere la piena fiducia dei propri atleti, al pari di Del Neri, ma con un atteggiamento un po’ diverso: “Un allenatore è un professionista, un fratello maggiore, un padre, un amico, un punto di riferimento positivo per un atleta, non al punto però da invadere la sua sfera privata”. Oltre all’atteggiamento da ricercare, rimane fuori discussione che la capacità del leader nel condividere in tutto e per tutto un tratto del cammino dei propri atleti o dei propri collaboratori è fondamentale. Carica di fascino è la definizione offerta da Celli: “Un buon manager è un generoso dispensatore di tempo: quello che dice vale meno del tempo che ti dedica”. Se tutti questi suggestivi inviti a fare squadra, nei club sportivi come nelle aziende, non fanno altro che far crescere sempre più la consapevolezza che sia necessario superare l’interesse individuale e la pura efficienza economica, rimane difficile capire come si possa evitare il rischio di una deriva verso l’egoismo collettivo. Perseguire obiettivi di gruppo non tutela dai contrasti e dalle tendenze disgregative: è davvero sufficiente che il collante, nell’impresa come nello sport, sia la convenienza, l’interesse economico o il prestigio di una piccola collettività, ai quali sacrificare il tornaconto personale? Non si arriva forse spesso a dover imporre delle regole per arrivare a questi scopi, un contratto a cui tutti si assoggetteranno per spirito di sopravvivenza? Insieme, tra persone che si stimano Molte grandi imprese e team si affannano a dimostrare di avere come obiettivo la costruzione di rapporti di fiducia, di armonia e di equilibrio fra dirigenti e lavoratori, fra tecnico e giocatori, fra colleghi e compagni di squadra. Paolo Cuccia, amministratore dell’Azienda comunale energia ambiente di Roma ha affermato che “i team sono composti da persone dove l’aspetto tecnico è soltanto una parte del bagaglio necessario. La capacità di condividere lo sforzo è fondamentale. L’obiettivo è realizzare un viaggio ben riuscito fra persone che si stimano e si apprezzano”. In un piccolo, ma significativo convegno internazionale per imprenditori di aziende che aderiscono al progetto dell’Economia di Comunione, un industriale del Brasile, Rodolfo Leibholz, ha invitato a scoprire le potenzialità enormi offerte dal saper condividere, all’interno di un team, ben più che gli impegni contrattuali o gli obiettivi dell’azienda: condividere una cultura del dare, l’arte di amare il prossimo, collega, dirigente o cliente che sia. Chi si è sforzato di dare il proprio contributo a progetti come questo, ha spiegato, ha sperimentato cosa significhi sentirsi al centro del processo produttivo, quest’ultimo orientato al bene comune, e vedere crescere la produttività grazie al liberarsi della creatività di ciascuno. Una sfida che attende risposte suggestive anche nel mondo dello sport. LAVORARE IN TEAM IL DIFFICILE RUOLO DEL LEADER Lao Tzu, il filosofo cinese padre del taoismo, scriveva, già nel VI secolo avanti Cristo: “Il cattivo leader è colui che la gente disprezza, il buon leader è colui che la gente rispetta, il leader eccellente è colui che fa sì che le persone dicano: l’abbiamo fatto noi”. Non è poi tanto recente nemmeno l’idea di andare a mutuare dal mondo dello sport le figure di capi carismatici capaci di legare un gruppo e condurlo ad un obiettivo. Nel 1914, Ernest Shackleton ed un equipaggio di 27 persone rimasero bloccati con la propria nave tra i ghiacci dell’Antartide. Sopravvissero per quasi due anni, e l’esploratore seppe condurre in salvo l’intero equipaggio. I commenti postumi dei suoi uomini e le analisi delle ricostruzioni storiche portarono a considerare la “via di Shackleton” come un modello di leadership, specie dei momenti di crisi, capace di suscitare ancora oggi l’ammirazione degli studiosi della materia. “Non gli importava di rimanere senza camicia, purché gli uomini al suo comando avessero vestiario a sufficienza. Dava l’impressione che il gruppo fosse più importante di qualsiasi altra cosa”, riferì Lionel Greenstreet, primo ufficiale della nave Endurance. La testimonianza diretta ed una vision, una prospettiva lungimirante, sembrano essere dunque i fattori chiave della leadership, accanto alla capacità di generare il coinvolgimento sugli obiettivi, di valorizzare le qualità personali dei collaboratori, di attivarne le energie verso uno scopo comune, stimolando e favorendo lo spirito di collaborazione e l’attitudine ad operare in team. Interessanti interviste sul ruolo dei leader d’impresa e dei coach sportivi sono state raccolte in “Fare eccellere il team” (Franco Angeli Editore). DAL CHIEVO AL REAL MADRID MEGLIO UN TEAM O TANTI FUORICLASSE? Molti oggi sono convinti anche che in un gruppo l’obiettivo possa essere di gran lunga superiore a quello del singolo, specie nello sport. Basti pensare al fenomeno Chievo, miracolo calcistico sempre meno effimero, fondato appunto su una sapiente valorizzazione delle risorse, oltre che su una credibile gestione a misura d’uomo. Gigi Del Neri, l’ottimo tecnico che guida i gialloblu, non ha mai nascosto i presupposti del suo rapporto con i giocatori: “In una squadra, come in un’azienda, chi comanda deve decidere. L’allenatore non può essere l’amico dei giocatori, l’amicizia è un’altra cosa: qui servono correttezza e rispetto, ed ognuno deve restare nel proprio spazio di azione. Non voglio, ad esempio, che i giocatori mi diano del tu. E sono sicuro che sia meglio anche per loro”. Ad ogni fine stagione il Chievo è costretto, per motivi di bilancio, a vendere i suoi pezzi pregiati: paradossalmente, se un giocatore diventa troppo bravo, la società rischia di perderlo. Del Neri non se ne fa un cruccio, anzi: “Non è un problema,semmai è una risorsa: la speranza di mettersi in mostra e finire in un grande club, è una motivazione positiva, non negativa. L’allenatore che sa sfruttarla ha un vantaggio”.Ed ogni anno la squadra ritorna ad offrire il palcoscenico a nuovi giovani talenti. In una situazione che si potrebbe definire diametralmente opposta, si trova il Real Madrid, il club calcistico più titolato del mondo, ricco di soldi e zeppo di campioni. Vicente Del Bosque, il loro mister, cui non è toccato tanto di insegnare loro la tecnica calcistica, ma piuttosto cercare di far convivere tante “prime donne”, non dava segni di preoccupazione:”Per un allenatore non è mai un problema far passare il concetto che il calcio è uno sport di squadra in cui il risultato si può raggiungere solo con l’aiuto dei compagni. I giocatori lo sanno fin da quando hanno cominciato a giocare, altrimenti avrebbero scelto uno sport individuale come il tennis”. In realtà le cose nei team non vanno sempre così lisce: Del Bosque infatti è stato esonerato ed in ogni squadra i masaniello dello spogliatoio sono sempre sulle barricate, pronti a colpire il coach che non li valorizza a sufficienza. Marco Cesareo, oggi responsabile organizzativo della Banca popolare del commercio e dell’industria, dopo aver contribuito in maniera sostanziale all’ammodernamento operativo degli uffici postali in Italia, è più prudente: “I fuoriclasse fanno molto bene all’azienda, perché possono avere l’idea vincente, possono essere dei precursori e dei trascinatori. La cosa complicata è valorizzare i fuoriclasse, ma all’interno del team, evitando che si trasformino in battitori liberi”. Molti, nello sport come nelle aziende, reclamano la presenza di tanti mediani, più che di fenomeni.