Fare impresa in montagna
Le grandi distese della pianura padana. Di mais e foraggio. Le colline di vigneti, fitte ed esposte. Un progresso notevole, quello agricolo nel Paese. Passi in avanti tecnologici, legati a investimenti, al sostegno della politica agricola comune dell’Unione europea, alla modernizzazione delle produzioni. Anche se qui – pianura e collina – non mancano le contraddizioni, vale la pena di guardare a quello che è successo nel restante 40 per cento del Paese. È sull’agricoltura di montagna che è utile oggi concentrarsi. Perché è nelle aree interne che si concentrano le opportunità di miglior progresso e più accattivante sviluppo. Sono in calo le stalle e il numero di capi, non vi è dubbio. Ma il “ritorno” all’agricoltura che negli ultimi anni è stato ben descritto da Coldiretti e dalle altre associazioni agricole, ha indotto il ministero delle Politiche agricole di lanciare una serie di misure per sottrarre terre all’abbandono e alla facile edificazione. Sempre su pianura e collina, va ribadito.
Nelle aree montane, le dinamiche sono state un po’ diverse. Un minor consumo di suolo si è unito all’aumento dell’abbandono e alla riduzione delle superfici agricole utilizzabili a causa della crescita del bosco. Un punto percentuale l’anno in più, negli ultimi due decenni. Così sono saltate le logiche di uso dei terrazzamenti, dei pendii per il pascolo, della turnazione e della gestione agricola attiva per la produzione a livello famigliare e più ampio.
Un processo che solo da alcuni anni è giunto a un’inversione. Non che il bosco sia stato fermato da precise politiche di contenimento, ma va riconosciuto che anche nelle aree montane, le nuove generazioni tornano a investire facendo riferimento al settore primario come primo fronte sul quale creare reddito. Si torna a fare impresa in montagna e chi punta sulla terra è ben consapevole di quattro grandi novità rispetto al secolo scorso. Decisive.
La prima è legata al cambiamento climatico. È innegabile che si stiano alzando le temperature medie e questo influisce profondamente sul cambiamento delle opportunità di coltivazione con uno scambio di opportunità “verso l’alto”. Si è alzata fino a 800 metri la quota di coltivazione della vite. Fino a 600 l’olivo. A 700 le nocciole. Si arriva fino a 1.200 per le patate. E comunque, il mercato delle “tardizie” è cresciuto e non è una semplice nicchia. Climatologi ed agronomi sono costretti a lavorare sempre di più a stretto contatto. Anche con gli enologi, visto il miglioramento qualitativo dei “vini eroici”.
Secondo aspetto è quello della filiera. Le nuove imprese non si limitano a produrre e a mettere il prodotto non lavorato sul mercato. Sanno che per fare reddito, per far vivere una o più famiglie, devono fare filiera, cioè trasformazione e vendita, non solo diretta. Prendiamo il latte. Se anche lo produco, in un’azienda di media montagna, in una stalla posta a 700 metri di altitudine nelle Alpi, finirò per venderlo a 40 centesimi di euro massimi. In Piemonte gran parte del latte (in particolare dopo l’abbandono del regime delle quote) finisce in un paio di polverizzatori a 35 centesimi. Se invece produco e trasformo, facendo burro e formaggio di montagna (ancora diverso da quello d’alpeggio, vero solo per tre mesi l’anno), aumento di gran lunga il valore del mio prodotto. E anche il guadagno. Sempre di più, nelle Alpi e negli Appennini, è così.
Terzo aspetto è quello del legame tra opportunità di imprese diverse. A quella agricola si somma molto spesso una struttura turistica, collegata. Alberghi diffusi nei borghi e agriturismi interessano sempre di più le aree montane. Unire i due fronti, aumenta reddito e permette anche di fare della positiva “agricoltura sociale” – agriasili, ad esempio – di cui tanto la montagna ha bisogno, vista la continua perdita di servizi ai cittadini.
Ultimo fronte da toccare è quello relativo al legame tra pubblico e privato. Nelle aree interne del Paese, il Comune diventa il luogo fondamentale per mettere in moto processi di sviluppo e facilitare la nascita di nuove imprese. Così deve essere. Nuove generazioni, under 35 che vogliono creare un’azienda agricola moderna e capace di stare sul mercato, devono vedere nelle istituzioni un luogo amico e non un’interfaccia burocratica che mette paletti e fa fare troppa carta. I Comuni sono naturalmente i centri della crescita socio-economica del territorio montano. Spingono verso processi di innovazione, promuovono anche investimenti diretti da mettere a disposizione dei privati. Si pensi alle stalle. Un ente locale – in particolare un’Unione montana di Comuni – la può costruire. E mettere a disposizione di un privato che la usa tutto l’anno. Questo è un modello che migliora la gestione delle terre alte. Non solo legato alla presenza di animali negli alpeggi per tre mesi l’anno, bensì a una vivace stanziale organizzazione. Tutto l’anno. Che fa bene al territorio.
Questi temi saranno al centro di un seminario nazionale organizzato a Torino da associazioni agricole e degli enti locali, venerdì 7 aprile, dalle ore 9 alle 17, all’hotel NH Santo Stefano. C’è bisogno di condivisione, di ragionamento, di analisi, di buone pratiche da condividere. Perché, come afferma Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, «mantenere vivi i piccoli allevamenti di montagna non significa solo consentire ad attività economiche importanti di sopravvivere, ma anche e soprattutto salvaguardare un presidio fondamentale sul territorio, garantendone il mantenimento dal punto di vista idrogeologico, paesaggistico e, sempre di più, anche turistico».