Fare il medico in Africa come volontario

Rosanna è di origine italiana, svizzera di seconda generazione. Dialogo con lei su questo periodo trascorso in Africa.
Come hai affrontato l’impatto con il continente africano?
Sono stati due anni di sorprese, di amore, di semplicità, di gratitudine come avessi vissuto nella mia famiglia naturale. All’arrivo da zero gradi a Zurigo trovo 36 gradi di temperatura. Sono entrata in un nuovo mondo ricco di tante persone giovani e cordiali. Fa impressione vedere tanta gente laboriosa. Le donne con i loro bambini sulla schiena. Le strade con piccole bancarelle, dove è offerto qualcosa da mangiare. Una semplicità affascinante.
In che modo ti sei resa utile?
Essendo infermiera, per diversi giorni, Mabih, una focolarina, mi ha fatto visitare vari ospedali. Certo, non si possono paragonare con quelli svizzeri, ma funzionano. Volevo adattarmi alle abitudini di questo Paese, quindi andavo al mercato vestita con abiti africani. Anche la persona più povera è vestita dignitosamente. Lì la maggior parte della vita si svolge per strada e le abitazioni servono solo per la notte.
A febbraio sono andata a Man con un taxi. Eravamo in 5, alcune con lo zaino in grembo, le borse a destra e a sinistra, non riuscivo a muovermi di un millimetro e questo per 10 ore! Ma ce l’ho fatta. A Man, accolta festosamente, ho subito sperimentato la cordialità delle donne che mi hanno portato la cena, tanta frutta locale e anche una torta. La loro accoglienza mi ha commosso.
Hai lavorato in una clinica diurna?
Sì, certo. Si tratta di una sorta di ambulatorio molto semplice, ma ha il massimo del necessario. Si fa molto con pochi mezzi; c’è un laboratorio ben funzionante che annuncia il risultato in poche ore, il che garantisce un trattamento rapido. A volte tutto mi sembrava un po’ caotico, ma è interessante notare che funziona, anche senza un computer. Ciò che mi faceva più piacere è che anche i più poveri possono approfittarne, poiché il costo è accessibile a tutti.
Le zanzare della malaria erano in piena espansione in clinica e arrivavano molti bambini con la febbre a quasi 40 gradi. Cercavo di accogliere ogni paziente, salutandolo con un sorriso. Bastava così poco per farli sentire a casa. Forse non mi sarei mai abituata alla loro povertà, non mi era facile sopportarla, ma davo quello che potevo confidando che valeva più di tanti soldi.
Molti, con mio dispiacere, venivano a farsi curare solo all’ultimo momento. Come una donna anziana con il viso gonfio. Poteva solo balbettare. Pur sofferente, non aveva voluto venire prima. Una volta ho fatto un test HIV su una giovane madre, risultato positivo. Le ho spiegato che questa malattia esiste anche in Europa e che oggi ci sono buone opportunità di vita. Madre di due gemelli, disperata, voleva togliersi la vita. Non era una situazione facile. Poi il test con i gemelli, abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché negativo.
Una volta è arrivato un uomo raggiante dicendo: «Sono stato qui un mese fa. Mi avete accolto con un sorriso, mi avete messo su una sedia a rotelle e curato. Ora sto di nuovo bene. Volevo ricambiare il vostro sorriso, quindi sono venuto per ringraziarvi». Ero senza parole. Cosa può fare un piccolo gesto!
Lì gli adulti salutano con «Bonjour maman, bonjour papa» e si congedano di conseguenza. Era un onore sentirmi accolta così, perché mi ritenevano una di loro e non una signora sconosciuta.
Nella pausa andavo in città. I taxi sono in cattive condizioni, ma è logico con tutte le buche e le strade terrose. Gli autisti guidano in modo sicuro, ma a volte dovevo chiudere gli occhi. Con il tempo ho imparato a muovermi al mercato da sola. Essere chiamata “la bianca” non mi disturbava, sorridevo, e proseguivo.
Quello è un mondo senza orologi. Semplicemente si vive e si ha tempo gli uni per gli altri. Il proverbio «Noi abbiamo l’orologio e gli africani il tempo» è una verità. A volte mi mancava l’aria fresca e il cielo azzurro e limpido.
Hai abitato anche nella cittadella di Man?
Nella cittadella che chiamano insediamento vivono donne, uomini e sacerdoti, oltre a due famiglie. Vi si svolgono vari mestieri utili nei laboratori. Oltre alle numerose attività per i giovani, il piccolo insediamento offre alloggio per 60 ospiti, ma c’è anche un campeggio molto frequentato. Il centro socio-educativo “Wê-Mun, luogo per imparare” è molto frequentato. A volte arrivavano delle urgenze, come una donna che non riusciva a pagare le rette scolastiche dei 4 orfani che aveva accolto e non aveva più soldi per comprare il cibo. Mi faceva pena e insieme abbiamo chiesto a Dio il denaro necessario. Poi l’arrivo di una donazione da un mio amico svizzero. La donna non smetteva di ringraziare.
Nel mese di agosto si sono svolti due congressi. Le persone provenivano da 15 Paesi diversi. Dovevo assegnare un letto a ognuno, una vera sfida, ma alla fine ce l’ho fatta. La cosa più importante non è l’organizzazione, ma il rapporto. Durante il congresso la spontaneità, la gioia e l’impegno dei partecipanti sono stati straordinari. La fede era vissuta con il cuore più che con la mente. Poi il pranzo per 150 partecipanti cucinato su un fuoco di legna e preparato con un solo coltello.
Quando c’erano temporali improvvisi, con raffiche di vento e pioggia forte, le interruzioni di corrente e internet erano all’ordine del giorno. Poteva capitare che per tutto un weekend mancasse l’elettricità, ma nessuno si lamentava.
L’amore si manifestava concretamente. Un gruppo di signore mi dava i tessuti e una sarta mi cuciva i vestiti. Ero considerata un’abitante del posto. Paolina mi mandava sempre un pranzo pronto. Lì le torte sono molto apprezzate, ma si mangiano solo nei giorni di festa. Così le preparavo al limone, banana e ananas con la gioia di tutti. Ogni giorno bollivo l’acqua da bere, e le verdure e la frutta le spazzolavo con acqua e sapone. Una volta, su invito, ho mangiato carne di riccio, che è una prelibatezza.
Una domenica ho partecipato al pellegrinaggio della parrocchia con circa 400 persone: madri con i loro bambini sulla schiena, giovani e anziani sono partiti alle 8 del mattino cantando sotto il sole cocente. Mi commuoveva la profonda fede della gente. Mezz’ora di adorazione in ginocchio era normale e il fatto che il picnic si facesse alle ore 15 non dava fastidio a nessuno. Ci siamo fermati tre volte per meditare un versetto biblico e condividerlo. Mi colpivano le profonde risposte dei giovani.
Un sabato abbiamo portato alcuni oggetti utili in una prigione. Uomini e donne dai volti tristi si illuminavano sempre di più. Abbiamo cantato con loro e li abbiamo incoraggiati. Nel cortile, giovani e ragazze adolescenti giocavano. Stentavo a crederci. Dovevo trattenere le lacrime, ma poi superandomi facevo loro un sorriso, un cenno amichevole e un’assicurazione di preghiera.
C’è una povertà nascosta… Un giorno ho saputo che una donna che conoscevo beveva solo acqua tutto il giorno perché non aveva più nulla da mangiare. Non potevo crederci. Ho dato dei soldi a un’amica in modo che potesse comprarle del cibo. Il giorno del mio 70° compleanno, ho invitato tutti i miei nuovi amici per una torta e dei giochi. Cuocere al mio piccolo forno era una sfida erculea.

So che ti sei ammalata…
Due giorni prima dell’evento, ho ricevuto un regalo molto speciale: malaria, tifo e parassiti. Mi hanno confortata dicendomi: «Hai la malaria, ora sei arrivata in Africa». «Bello! Ora sono una di loro», ho pensato. Sorprendentemente, mi sono sentita abbastanza bene.
Un giorno, di ritorno dal mercato con le borse piene di spesa, i bambini sono corsi e mi hanno portato tutto fino a casa. Fantastica la loro spontaneità. Non mi era sempre facile essere guardata, ma le mani dei bambini tese verso di me e le loro risate felici mi davano gioia. Quello che apprezzavo davvero è che potevo muovermi liberamente al mercato o nei quartieri. Ogni tanto, però, c’erano incontri inaspettati. Una volta 10 giovani mi hanno circondata e hanno gridato: «Turista, turista» e mi hanno parlato. Li ho guardati sorridente: «Non sono una turista, sono una infermiera e lavoro al Centro Medico». Fecero subito silenzio, s’inchinarono e se ne andarono. Ho toccato con mano la loro nobiltà d’animo.
Poi è iniziata la stagione delle piogge e… mamma mia! Invece di 40 gradi erano 31, ma l’umidità era alta. Ancora oggi mi viene da udire dalla gente: che freddo! Incredibile, per me era piena estate!
Quanto tempo hai impiegato per entrare nel mondo africano?
A 8 mesi dal mio arrivo mi sono sentita a mio agio. È stata una palestra perdere le mie idee, anche se mi sembravano buone e utili per entrare nella cultura del posto. Non c’è un solo modo di vivere. Amavo incontrare i malati, anche se a volte era doloroso. Una mamma è venuta con una bambina di due anni che pesava non più di 4 kg, l’abbiamo ricoverata in terapia intensiva. Un’altra volta una giovane madre continuava a svenire, occorreva agire in fretta. Avrei voluto aiutare tutti, ma questo non era possibile, non potevo che pregare per loro.
Un sabato sono arrivati molti pazienti a causa di un venerdì di festa musulmana. Non sapevamo più come fare, ma mi dicevo: non devo pensare a quanto lavoro ho, ma al paziente che devo incontrare con rispetto e dignità. Nonostante il lungo tempo di attesa si sperimentava una grande pace.
Un giorno, ho visto un lungo serpente velenoso a pochi metri da me. Proprio poco tempo prima erano stati uccisi tre serpenti vicino a casa mia… da allora facevo più attenzione. Avevo visitatori di alto rango nella mia cucina e nel mio salotto: un’intera colonia di formiche giganti, alcune delle quali coprivano quasi tutto il pavimento. L’unica scelta era usare il veleno. I ragni piombavano a terra e due lucertole continuavano a sparire dietro l’aria condizionata. Ero contenta di dormire sotto la zanzariera.
A ottobre con un amico sono andata in vacanza a Jacqueville, in riva al mare. Un posto bellissimo, circondato da palme e piccoli villaggi. L’intero villaggio aiutava a tirare a riva le reti da pesca. Abbiamo dato anche noi una mano. Un lavoro massacrante.
Ricordo un’escursione attraverso la giungla da sola. Grazie al GPS sono arrivata sana e salva in un piccolo villaggio con molte capanne di paglia. Quando la folla di bambini mi vide, saltò via e si nascose dietro le palme. C’è voluta tutta la mia persuasione per avvicinarli. Alla fine, tutti volevano stringermi la mano e toccarmi i capelli. Non avevano mai visto una persona bianca. Dopo i giochi, volevano che facessi loro una foto.
Il 23 dicembre, la parrocchia ha organizzato un Natale per bambini che hanno accompagnato i canti con movimenti appropriati. Di colpo una voce all’altoparlante: la bianca, la bianca. Ben presto ho capito che dovevo ballare con loro. Ballare non è mai stata la mia passione, ma dovevo buttarmi. Così saltai da una gamba all’altra, ma mi sentivo rigida come un elefante. Ho afferrato per un braccio una donna vicina e abbiamo fatto una danza circolare. Grazie a Dio ha preso subito parte alla festa. Sono riuscita a tornare al mio posto con uno scrosciante applauso.
Hai visitato altri Paesi oltre la Costa d’Avorio?
Sì, in aprile una nuova entusiasmante tappa. Il mio piano era di trascorrere circa un anno in Africa, ma il tempo è passato troppo in fretta. Desideravo conoscere un altro Paese e sono partita per la Tanzania, a Iringa. Nuovi volti, ma la caratteristica gentilezza sempre la stessa. Gente felice che vive in una semplicità e dignità difficile da capire per noi che viviamo in una società dove – si può dire – non manca nulla.
Lì ho vissuto un emozionante lunedì dell’Angelo. Con varie comunità religiose, sono andata da un reparto all’altro dell’ospedale. È stato commovente entrare nel reparto di pediatria. I piccoli pazienti ci tendevano le loro piccole mani. Passata da uno all’altro, ho stretto le loro manine salutandoli con hijambo, che significa “ciao, ciao”. Un sorriso illuminava i loro volti. Non è facile vedere tante sofferenze e viverle da vicino.
Alla fine di gennaio, con il cuore pesante ho salutato tutte le care persone che ho potuto incontrare in Africa. Con grande gratitudine guardo a questo periodo in cui ho condiviso gioie e dolori. Un tempo ricco di emozioni, esperienze, amici. Mi mancano molto i bambini con la loro allegria e cordialità. Un tesoro che rimane impresso nel mio cuore.
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