Fare e disfare. Una legge per le televisioni

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“Un presidente non di facciata “. Così molta stampa internazionale ha definito Carlo Azeglio Ciampi, per la sua decisione di non firmare la “legge Gasparri”, approvata definitivamente (si pensava) dal Senato il 2 dicembre 2003. 155 voti contro 128: maggioranza e minoranza compatte sui fronti opposti, quasi come in un voto di fiducia. Tale compattezza si spiega con la natura della legge, che si occupa del sistema radiotelevisivo italiano. Se si pensa all’importanza politica assunta ovunque dalla televisione, e al ruolo peculiare che gioca nel caso italiano, si capisce che la posta è altissima. Si sapeva già che cosa Ciampi pensa sull’argomento. Era chiaro fin dal 23 luglio 2002, quando inviò un messaggio alle Camere nel quale raccomandava la salvaguardia del pluralismo dell’informazione. Nel rinviare la legge Gasparri alle Camere, il 15 dicembre scorso si è appoggiato, prevalentemente, su sentenze della Corte costituzionale che attendono di venire applicate. Anzitutto, Ciampi ritiene che la legge approvata dal Senato non garantisse la fine di quell’infinito “periodo transitorio” che dovrebbe portare dall’attuale duopolio televisivo di Rai e Mediaset ad un vero pluralismo dell’informazione; se non si stabilisce con chiarezza quando la situazione avrà fine, e quali provvedimenti potranno essere presi contro i trasgressori, il transitorio è destinato a diventare permanente. Ancora, la legge Gasparri, secondo Ciampi, non protegge dal rischio che nel settore delle comunicazioni si creino “posizioni dominanti”, tali da ostacolare una positiva concorrenza intesa come garanzia di libertà. La mancata promulgazione della legge Gasparri mantiene in vigore le norme esistenti, in base alle quali un singolo soggetto non può possedere più di due reti nazionali: il 31 dicembre avrebbe obbligato allo spegnimento di Rete 4 e alla rinuncia alla pubblicità e, dunque, a una radicale trasformazione di Rai 3. I mostri televisivi In Italia, in effetti, abbiamo due “mostri” radiotelevisivi, Rai e Mediaset, che costituiscono un serio ostacolo al pluralismo. Basta pensare che Rai e Mediaset raccolgono, insieme, il 97 per cento dell’audience; mentre i primi due gruppi televisivi raccolgono il 66 per cento in Germania, il 65 per cento in Gran Bretagna, il 64 per cento in Francia e il 54 per cento in Spagna. Cresciuta in maniera abnorme, la Rai aveva un tempo una posizione di monopolio. Il sorgere delle televisioni private locali cominciò a creare, negli anni Settanta, una parziale alternativa. Sullo spazio aperto dalle private si basò l’offensiva di Silvio Berlusconi il quale, anche con l’appoggio determinante di Craxi, riuscì a costruire il secondo mostro: necessariamente triplice, dato che le dimensioni aziendali erano imposte dalla concorrenza, cioè dal detentore del “peccato originale” del gigantismo televisivo, la Rai, appunto. Di per sé, dal punto di vista delle esigenze del pluralismo democratico, la nascita di un secondo polo privato, accanto a quello pubblico, è positiva, dato che aumenta il numero delle agenzie informative. Ma la concorrenza tra le due grandi aziende non si è svolta sul piano dell’innovazione, dell’esplorazione di nuove strade, del meglio; al contrario, da molti punti di vista è stata una gara verso il peggio, che ha creato sei reti “generaliste”, cioè facenti un po’ di tutto in costante imitazione reciproca, e che ha relegato molte valide professionalità del giornalismo italiano in seconda serata o a notte fonda. La legge Gasparri avrebbe permesso ai due giganti di crescere ancora, rimanendo, qualitativamente, quello che sono adesso. Come? Attraverso la nuova definizione delle risorse del settore delle comunicazioni, denominato “Sistema integrato delle comunicazioni”, abbreviato (senza ironia, del resto rarissima in politica) in “Sic”. L’articolo 2 della legge definisce il Sic come un settore economico nel quale rientrano moltissime imprese: radiotelevisive e di produzione e distribuzione dei relativi programmi; tutta l’editoria: quotidiana, periodica, libraria, elettronica; tutto il cinema: produzione e distribuzione; le imprese fonografiche (videocassette, cd e dvd); le imprese pubblicitarie. La legge Gasparri (articolo 15) stabilisce che nessun soggetto può avere ricavi superiori al 20 per cento delle risorse di tale settore; e i ricavi includono: canone Rai, pubblicità nazionale e locale, televendite, investimenti promozionali, convenzioni con enti pubblici, offerte televisive a pagamento, vendita di beni, servizi e abbonamenti dell’intero settore del Sic. Definito in questo modo, il settore delle comunicazioni è immenso: al punto che sia il polo Fininvest (che comprende Mediaset, Mondadori e Medusa), sia la Rai, avrebbero enormi margini di crescita prima di arrivare al limite del 20 per cento: potrebbero tranquillamente acquisire altre aziende televisive, o moltiplicare le loro partecipazioni (a partire dal 31 dicembre 2008) nei quotidiani. Un ruolo centrale nelle risorse del Sic è dato dalla pubblicità. L’autorità per le Comunicazioni si è già occupata dei tetti pubblicitari dei due giganti televisivi: un’indagine conclusa nel giugno 2003 ha stabilito che sia la Rai che Mediaset avevano superato il tetto, attualmente vigente e più restrittivo di quello della Gasparri, di circa il 30 per cento. Entrambe hanno subìto il richiamo dell’Autorità, che altre armi non aveva, allora, per intervenire. Ci ha pensato Ciampi il quale, possiamo dirlo dopo avere visto che cosa è il “Sic”, aveva ragioni da vendere. Il digitale terrestre Inserirsi in tale scontro tra giganti è impresa più volte tentata ma mai riuscita. Ci provarono Rusconi e Mondadori. Ne sa qualcosa, da ultimo, l’emittente Europa 7, di Francesco Di Stefano, in possesso di una concessione nazionale dal 1999, che da allora è in attesa di una frequenza per trasmettere; avrebbe dovuto cominciare, appunto, in coincidenza del passaggio di Rete 4 al satellite. Vari ricorsi pendono al Tar del Lazio, e i legali dell’editore si stanno prodigando per portare la pratica alla Corte costituzionale. Abbiamo visto il limite politico costituito dalla presenza del duopolio. C’è anche un limite tecnologico, dovuto al numero ridotto di frequenze televisive oggi disponibili, che potrebbe venire superato dal cosiddetto “digitale terrestre”, al quale la legge Gasparri affida la realizzazione del pluralismo dell’informazione. Si tratta di una tecnologia che consente, grazie alla compressione del segnale, di moltiplicare i canali disponibili. In tal modo, nuovi editori potrebbero entrare in scena, moltiplicando il pluralismo dell’informazione. L’ingrandimento delle aziende esistenti, dunque, nelle intenzioni di Gasparri, verrebbe compensato dall’ingresso di nuovi editori. Perché questo divenga realtà, però, sono necessarie due condizioni: la prima, che gli italiani cambino il loro televisore o si muniscano di un decoder per ricevere il digitale; ma i telespettatori saranno stimolati a cambiare solo se ci sarà una offerta di programmi allettante. E qui interviene la seconda condizione: per mettere in piedi un palinsesto digitale, l’editore, secondo gli esperti, deve mettere in conto un centinaio di milioni di euro di perdite all’anno (per alcuni anni), prima di arrivare al pareggio. Attualmente, solo i colossi Rai e Mediaset, e non certo un nuovo editore, potrebbero imbarcarsi in una impresa del genere: dove andrebbe a finire, allora, il pluralismo promesso dal digitale? Decreto espresso La situazione, attualmente, ha i connotati della frenesia. Per evitare le conseguenze della mancata firma di Ciampi, il Consiglio dei ministri ha approvato, il 23 dicembre, un decreto, chiamato, appunto “salvareti”. Il decreto stabilisce un limite certo al periodo transitorio: l’Autorità per le Comunicazioni valuterà l’esistenza, al 30 aprile, di tre condizioni del pluralismo informativo: una adeguata offerta di programmi in digitale da parte degli unici due soggetti in grado, attualmente, di predisporli, cioè Rai e Mediaset; la quota di popolazione raggiungibile dalle reti digitali; la quantità di decoder – a prezzi accessibili – acquistata dagli italiani. Se queste condizioni non saranno sufficientemente realizzate, l’Autorità potrà intervenire per eliminare le posizioni dominanti, costringendo a spegnere o a vendere qualche televisione. È una lotta contro il tempo: le due aziende hanno affermato di poter allestire, entro il termine stabilito, una rete di antenne capace di raggiungere la metà della popolazione. E contano sulla speranza che almeno 800 mila decoder vengano acquistati nel frattempo, anche avvantaggiandosi dello sconto che la legge finanziaria ha previsto per gli acquirenti della nuova tecnologia: aspettiamoci, nelle prossime settimane, una valanga di pubblicità che cercherà di convincerci che senza il decoder non si può vivere. Ma a lottare col tempo non sono soltanto le aziende direttamente coinvolte: il decreto deve essere convertito in legge dalle Camere entro sessanta giorni. Nel frattempo, sono cominciati i lavori per la revisione della legge Gasparri: il decreto-espresso risponde infatti solo in parte alle obiezioni del presidente Ciampi: la nuova legge dovrà affrontare i nodi del “Sistema integrato delle telecomunicazioni” e dei tetti di raccolta della pubblicità. Dopo il lavoro di commissione, tutto tornerà in aula il 26 gennaio. Ma non sarà facile: su aspetti rilevanti sia l’Udc di Follini, sia Alleanza nazionale non sono affatto allineate con Forza Italia. Suggerimenti Che tipo di legge ci piacerebbe vedere promulgata? Ricordiamo che è in gioco il principio della libertà di espressione e di informazione: presuppone la pluralità e l’indipendenza delle agenzie di informazione, senza la quale non c’è democrazia compiuta. Inoltre, solo con un grande pluralismo si può sperare che anche le voci dei più deboli possano essere ascoltate. Da questo punto di vista, appare indispensabile modificare il “Sistema integrato delle comunicazioni”; lo si può fare stabilendo limiti accurati alle “posizioni dominanti” all’interno dei singoli settori considerati non solo nel loro insieme, ma anche separatamente: televisioni analogiche, televisioni digitali, stampa” Ancora: stabilire tetti per la raccolta pubblicitaria più restrittivi, e favorire, con misure straordinarie, la formazione di nuovi editori televisivi sia nell’analogico (finché durerà) che nel digitale, che creino una vera concorrenza informativa dalla quale il cittadino può solo guadagnare. Il duopolio televisivo è proprio ciò che va smantellato, perché impedisce l’ingresso nel sistema informativo di nuove imprese di dimensioni efficienti. Con questo, non si vuole impedire alle imprese di crescere, ma le si orienta a crescere sia verso l’estero, sia inventando cose nuove, anziché contendersi il mercato tradizionale con reti generaliste che si scimmiottano a vicenda. In questo senso, appare necessario ripensare in profondità la stessa Rai, per adeguarla ai veri compiti del servizio pubblico. Tutto questo, senza prendere in considerazione il fatto che il proprietario di uno dei due blocchi televisivi è in grado, in quanto presidente del Consiglio, di condizionare pesantemente l’altro. È una situazione inaccettabile dal punto di vista dei più elementari princìpi democratici: un giudizio doveroso, da dare prima di chiedersi se si è d’accordo o meno con la politica di Silvio Berlusconi. È il tema del “conflitto di interessi”, intorno al quale sta lavorando la “legge Frattini”, sulla quale non mancheremo di prendere posizione.

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