Fare città, tra speculazione e bene comune

Convegni, libri, esperienze di partecipazione come segnali di una ricerca crescente del senso dell’abitare comune. Un’intervista con l’urbanista Carlo Cellamare
Logo mostra Le citta di roma

Si conclude sabato 8 maggio all’Ara Pacis la mostra su “Le città di Roma” con una sezione dedicata alla storia delle periferie negli ultimi sessant’anni. Un segno di come ridiventa centrale nel dibattito contemporaneo la ricerca di quella che viene chiamata «coscienza di luogo». E così se un famoso urbanista come Leonardo Benevolo ha pensato di intitolare «La fine dalla città» il suo libro intervista, a bilancio di una vita, forse  è proprio questo il momento per  far riemergere  la domanda sul senso della città moderna?

 

Ne parliamo con un altro urbanista, Carlo Cellamare, docente presso la facoltà di Ingegneria dell’università “La Sapienza”, in un dipartimento, appunto quello di urbanistica, molto attivo nel sostenere numerose esperienze di partecipazione popolare nella costruzione dei contesti urbani. Dall’esperienza portata avanti nello storico Rione Monti, il primo di Roma, è nato un libro, anche questo con un titolo emblematico, “Fare città”, dove si evidenzia la fatica e la necessità di costruire la “città di pietra” come “città per gli uomini”.

 

Quali problemi insorgono nella città moderna ?

«Il primo problema che siamo costretti ad affrontare è il prevalere della rendita sull’interesse pubblico. Molte regole sono superate da strumenti di negoziazione, come gli accordi di programma, che servono alle amministrazioni pubbliche per attirare i capitali privati. Così il comune che non ha soldi per progettare e costruire la città si deve affidare al privato che ovviamente ricercherà il valore aggiunto della maggiore cubatura che proviene dalle nuove costruzioni. Con la conseguenza che a comandare lo sviluppo della città rimane sempre la rendita che diventa come una tassa da pagare».

 

L’urbanistica non nasce tuttavia come strumento di controllo del territorio per una finalità di bene comune?

« Innanzitutto teniamo presente che Roma è costruita abusivamente almeno per un quarto della sua estensione. Abbiamo un centro storico che ormai è un simulacro di se stesso dove i residenti storici vengono man mano espulsi. Ma per parlare delle modifiche recenti posso dire di aver vissuto, al tempo del sindaco Veltroni, l’impatto dell’operazione nella zona “ Bufalotta” conosciuta come “le porte di Roma”: una vasta area agricola ceduta alla progettazione privata in cambio di alcuni spazi ad uso pubblico. Ebbene si deve prendere atto che l’interesse della rendita è stato assolutamente prevalente. La cessione di un Parco alla collettività non è minimamente paragonabile alla mano libera riservata ai costruttori. Purtroppo l’amministrazione pubblica non ha le capacità tecniche o la cultura necessaria, e spesso neanche la volontà politica per tutelare l’interesse collettivo e far valere la città come bene comune. Il problema quindi non è tanto il guadagno – pur dovuto – dei privati costruttori ma la sproporzione incredibile rispetto all’interesse pubblico, per cui alla fine si finisce per vendere interi pezzi di città come se fossero una merce»

 

Passando al tempo presente che idea si è fatta del progetto di abbattimento e ricostruzione del quartiere di Tor Bella Monaca?

«Nel caso del progetto di una nuova Tor Bella Monaca a non alta densità di residenti entra in gioco il consumo di territorio e la crescita vertiginosa delle volumetrie. Per avere più cubatura, infatti, senza dover costruire dei casermoni occorre usare sempre più territorio in maniera esorbitante a danno delle aree agricole. Una conclusione assurda se pensiamo alle condizioni in cui ci troviamo e ai problemi ambientali che dobbiamo affrontare. È il modello della città diffusa, delle villette offerte anche alla piccola borghesia nell’illusione di raggiungere lo status dei ceti più abbienti. Come è avvenuto alla Bufalotta. Partendo da un’area agricola si son voluti realizzare complessi residenziali di alto livello ma in maniera ridotta con tagli delle abitazioni che raramente superano i 60 metri quadri. Una gigantesca operazione di promozione immobiliare, di vendita di un’illusione di status, che non tiene conto di alcun modello di città. Non si produce, infatti, un contesto urbano di città vivibile e densa di relazioni. Alla fine, le persone non si incontrano mai se non nell’immancabile vicino centro commerciale»

 

Sta cambiando dunque radicalmente il modo di abitare?

«Cambia il modello di abitare che non favorisce l’idea di un tessuto di relazioni sociali. La città non è più concepita come “bene comune”. Abbiamo giardinetti e casette e non la costruzione della socialità che avviene dall’incontro delle differenze. Così negli incontri pubblici avvenuti a Tor Bella Monaca le persone delle diverse associazioni hanno voluto affermare che l’abitare non è solo il problema dell’edificio ma di tutto quello che fa città. Bisogna, infatti, ricostruire una uova urbanità, un nuovo modo di stare assieme. Affidare il progetto ad un costruttore vuol dire non ricostruire una città ma un insieme di edilizia residenziale con qualche centro commerciale. Dal dibattito presente nel quartiere emerge la necessità di non rompere un tessuto sociale costruito anche in un contesto difficile. Insomma quando si programma un intervento in urbanistica occorre tener presente che dobbiamo evitare di disgregare le relazioni. La città, infatti, non è solo la casa ma l’abitare assieme».

 

Resta il fatto che certi quartieri di tante città sono luoghi dove si sperimenta un forte disagio sociale e la mancanza di servizi essenziali. Non è pericolosa una tale spaccatura esistente con altre zone della stessa città ?

«Corviale e Tor Bella Monaca sono delle utopie fallite degli anni ’80. Enormi complessi residenziali costruiti con l’idea di un quasi ghetto di edilizia popolare. Non è un modello riproponibile, ma io lavorerei sul fatto che il pubblico deve recuperare il controllo sugli accordi di programma e sui progetti di riqualificazione urbana. Un ruolo forte da esercitare anche in termini finanziari. Necessita soprattutto coinvolgere nelle scelte la popolazione che abita tali contesti. Costruire cioè una città a misura delle persone che ci vivono. Occorre pensare a luoghi dove ci sia anche attività produttiva e lavoro. Pezzi interi di città.

 

Ma perseverano elementi di contraddizione nella lettura dei luoghi urbani di Roma…

Ci sono, a mio parere, due contraddizioni che emergono da un recente studio dell’Unione borgate a Roma: è vero sono luoghi con carenza di verde di scuole, di servizi, in sostanza uno scenario da Paese del terzo mondo, ma si tratta di posti dove le persone sono contente di vivere perché esiste la memoria di un aiuto reciproco molto forte nei primi tempi. Si vive una dimensione a misura d’uomo. Per cui c’è questa contraddizione tra l’essere luoghi degradati ma capaci di esprimere una condizione dell’abitare più favorevole che man mano si perde tuttavia con le nuove generazioni. Occorre invece riappropriarsi della dimensione sociale della città. Ricostruire spazi di luoghi comuni per chi ci abita. Autogestiti direttamente da chi se prende cura. Per esempio nel quartiere periferico della Borghesiana i residenti hanno svolto una decisa azione per recuperare uno spazio degradato dove insisteva uno scheletro in cemento armato confiscato alla mafia: l’intera area, dopo l’abbattimento della costruzione abusiva, è stata trasformata in parco pubblico, ristrutturando anche due casali agricoli diventati una mediateca. Gli abitanti si sono sentiti responsabilizzati per quell’area che è stata gestita da una cooperativa costituita da persone del posto.

E sono molti i segnali di una diffusa resistenza a modelli di coesistenza anonimi indotti da una logica speculativa che man mano tende a mangiarsi fette consistenti di verde e territorio agricolo. Molte forme di solidarietà sociale, di cura del proprio contesto di vita percepito come spazio comune, nascono e si affermano proprio nei contesti più difficili».

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