Far politica senza prendere il potere

La «vocazione minoritaria» come urgenza morale, secondo Goffredo Fofi.  
Aldo Capitini

In politica sono importanti i numeri. Non i “paternoster” cioè le buone intenzioni, direbbe Machiavelli. Ogni elezione serve anche per contarsi all’interno della propria coalizione. È un lavoro febbrile: raggiungendo certi obiettivi si aprono o si chiudono certe carriere, si vanno a ricoprire certi posti strategici e se ne determinano, a cascata, altri.

 

Esiste, tuttavia, una componente “irregolare” nel mondo dell’impegno politico. Ne parla, in un libro intervista, Goffredo Fofi, figura anomala che non può essere rinchiuso nella definizione di critico letterario. La «vocazione minoritaria» non è l’accettazione del dato di fatto di essere minoranza o l’espressione di una tendenza snobistica che si distacca sdegnosa dalla massa. Come nella vocazione di Levi, descritta dal Caravaggio, si tratta di una chiamata che illumina l’oscurità del banco dei pegni. È l’urgenza morale che fa decidere di essere minoranza: «La minoranza anche di uno solo, se occorre».

 

Quante volte si ha timore di prendere posizione perché si è tentati dalla paura di contarsi? Nel tentativo di sottrarsi all’impietosa analisi dei numeri, non ci si rende conto che una società meno ingiusta si costruisce a partire da quelle minoranze etiche capaci ancora di provare vergogna per l’iniquità e quindi esporsi, costi quel che costi. Un filone di pensiero e azione che rimanda a maestri di coscienza civile come Aldo Capitini e Danilo Dolci che non hanno certo ricoperto cariche parlamentari o ministeriali.

 

L’intervista di Oreste Pivetta a Goffredo Fofi racconta una storia d’Italia in cui la bella politica si pratica nelle periferie. Qui l’incontro tra credenti o non credenti avviene nel «ben fare» cioè «nell’amore del prossimo e nel tentativo di sollevare lo stato di soggezione e di separatezza di tanti». Si arriva così all’intuizione che non bisogna «attendere il sol dell’avvenire», e cioè la presa del potere, per vivere rapporti nuovi, perché l’utopia va realizzata subito, qui e ora.

 

Emblematica l’esperienza diretta di quella “mensa dei bambini proletari” portata avanti negli anni Settanta, a Napoli, da giovani, di diversa provenienza culturale, animati dall’urgenza di fare qualcosa per rispondere alle necessità di una condizione sociale altrimenti orientata alla disgregazione e alla solitudine. Questa «adesione concreta a battaglie sui problemi vitali» si è rivelata, per Fofi, la salvezza per tante persone che in quegli anni hanno resistito alla tentazione della lotta armata.

Il libro descrive una ricerca interiore che diventa continua scoperta di quelle realtà, come la Caritas di Luigi Di Liegro, capaci di rendere possibile una «visione morale dell’agire sociale e politico che stia dalla parte dei deboli e delle persone comuni». Capace di inventarsi regole diverse da quelle osservate da chi detiene il potere, senza per questo esprimere disprezzo per le maggioranze. 

     Il tempo attuale, osserva Fofi, è intriso di un conformismo che giunge ad idolatrare l’immagine della ricchezza e della volgarità. Un dato di fatto da cui non ci si può, tuttavia, separare e neanche racchiudere in un giudizio moralista. Occorre, invece, accettare di vivere nella contraddizione per poterne uscire fuori assieme. Perché è vero che aumenta la spinta verso maggioranze da raggiungere ad ogni costo; si profila anche la tentazione plebiscitaria dove le minoranze non sono previste se non per essere represse. Ma crescono segnali di una pratica sociale diffusa che mostra una prospettiva di cambiamento nella gestione del potere a partire da sé stessi.

 

Goffredo Fofi – «La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze». Editori Laterza

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