Far grande Dio
L’occasione che ha risvegliato la spinta interiore a scrivere queste pagine m’è venuta da Rosetta Stella. Si parlava del Magnificat come di una collana che inanella perle preziose, di vari e lucenti colori, e in ognuna delle quali si rispecchia la Luce che irradia dall’anima di Maria.
«Quale versetto tu sceglieresti?» – mi ha domandato.
Non ci son stati dubbi: ho scelto subito il primo, d’istinto. E non per presunzione. Ma per il fascino ch’esso da sempre esercita su me. Il fascino d’un mistero che raccoglie in uno il chi è di Maria e proprio così lo può poi dispiegare come un fiore profumato che dischiude la sua corolla ai primi raggi del sole.
Tutto nasce da quel verbo che Maria sceglie per intonare il suo canto: «l’anima mia megalúnei, magnificat, fa grande il Signore». È la parola che dà il tono e il titolo a tutto il canto.
Ciò che ti avvince, in esso, è l’umiltà di Maria, il suo annientarsi di fronte a Dio, per cantare la lode della Sua onnipotenza e misericordia, che si svelano in ciò che – attraverso lei – sta accadendo nella storia. In Maria vive già Gesù. Un’altra vita. “La” Vita.
Che cos’è, per una donna, sperimentare d’essere abitata da un’altra vita, darle carne e sangue, attendendo il momento in cui essa – come un miracolo – le sarà posta di fronte?
Non ho esperienza di questa percezione, la posso solo immaginare. Sono uomo e sono prete. La posso ricevere, per empatia, da una donna con la quale non ho però un rapporto sponsale.
Non ho neppure l’esperienza di quella paternità di sangue che, vissuta nella reciprocità con una donna, può accogliere anche in sé, almeno indirettamente, il sentimento peculiare e misterioso della maternità.
Ma ricordo quant’impressione mi fece quando mia sorella, poco dopo essere divenuta madre, offrì alle mie braccia la sua bimba, Alibet. Intuii che mi faceva partecipe – non so quanto coscientemente, non gliel’ho mai chiesto, ma certo con squisita sensibilità – dell’esperienza grande e bella della sua maternità.
E ricordo anche quando, giovane prete durante un campeggio d’adolescenti, nella penombra della rustica cappella di montagna dopo la preghiera vespertina, venne da me Romana. Mi disse delle sue angustie. E poi, abbracciandomi, mi confidò che ero per lei padre.
Son state esperienze originanti. Alle quali tante altre, sempre diverse, sono poi seguite. Mi hanno fatto gustare, per un attimo, la bellezza vertiginosa e intima della maternità che non potrò mai fare, ma insieme presentire che essa – nella comunione dei cuori – può diventare in certo modo anche mia.
da Piero Coda, Magnificat, Città Nuova , 2013