Fao, un anno dopo
Secondo il Rapporto 2010 presentato il 14 settembre, il numero di persone che soffrono la fame è sceso sotto il miliardo. A un anno dal Summit sulla sicurezza alimentare, un bilancio.
Lo scorso anno, alla chiusura del Summit mondiale sulla sicurezza alimentare tenutosi a Roma dal 16 al 18 novembre, erano piovute diverse critiche sulla Fao: il documento finale, infatti, lungi dal porre nuovi obiettivi e strategie concreti, si limitava a ribadire un generico impegno dei Paesi firmatari a lavorare insieme per combattere la fame. Il rapporto della Fao sulla fame nel mondo presentato il 14 settembre 2010 a Roma, tuttavia, sembrerebbe smentire le cassandre: il numero di persone che soffrono per la mancanza di cibo è diminuito del 9,6 per cento, dal miliardo e 23 milioni del 2009 ai 925 milioni odierni. Ad aiutare è stata soprattutto la diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, dovuta alla particolare congiuntura economica. Appare quindi più vicino l’obiettivo del millennio di dimezzare la fame entro il 2015, portando al 10 per cento il tasso di popolazione mondiale che ne soffre: siamo attualmente al 16 per cento.
Rileggendo i documenti del Summit a un anno di distanza, tuttavia, emergono alcune contraddizioni. Nella conferenza stampa finale, il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, aveva sottolineato come «la discussione è stata fruttuosa: basti pensare che l’impegno preso è stato di eliminare, non solo di dimezzare la fame nel mondo, come nei vertici precedenti». Impegno che appare per ora accantonato, dato che l’obiettivo di riferimento rimane quello dei Millennium goals. E se – ha fatto notare Diouf – in 19 anni la percentuale di persone affamate è scesa di appena quattro punti, si capisce come abbassarla di sei nella metà del tempo non sia impresa facile.
Anche la diminuzione dei prezzi del cibo, come hanno fatto notare diverse ong, non è dovuta a maggiori investimenti o a riforme delle politiche agricole: l’impegno a muoversi lungo questa direttrice, menzionato più volte nel documento finale del vertice del 2009, appare così rimasto sulla carta per molti dei firmatari. Inoltre, puntualizza la stessa Fao, è stato provato che le congiunture economiche positive e la caduta dei prezzi del cibo non bastano da soli a sconfiggere la fame in modo duraturo: si tratta di un problema strutturale che ha bisogno di interventi specifici. E se si tiene conto che il 70 per cento degli abitanti dei Paesi in via di sviluppo vive di agricoltura, è evidente che la caduta dei prezzi è un’arma a doppio taglio: per questo rimane attuale l’appello rivolto l’anno scorso non solo dai rappresentanti dei contadini, ma anche da alcuni leader politici, a sottrarre i generi di prima necessità alle pure logiche di mercato.
La questione centrale rimane comunque quella di un accesso equo alle risorse (altro impegno preso nel documento finale): secondo il rapporto 2010, il 98 per cento delle persone malnutrite vive nei Paesi in via di sviluppo, e i due terzi in appena sette di questi. La maggior parte (578 milioni) vive in Asia (il continente che ha fatto comunque i maggiori progressi, dato che l’anno scorso erano 660 milioni), ma la regione con la percentuale più alta di affamati rimane l’Africa subsahariana con il 30 per cento della popolazione totale. E se Paesi come Ghana e Nigeria hanno già raggiunto gli obiettivi del millennio, la Repubblica democratica del Congo ha invece visto crescere la popolazione denutrita fino al 69 per cento. Insomma, una diminuzione a livello globale non basta finché, come ha ricordato Diouf, «ogni sei secondi un bambino muore di fame».