Fana, il lavoro ha bisogno di politiche industriali

Gli errori delle politiche del lavoro e la necessità di investire, con la leva pubblica, nei settori trainanti per una vera e buona occupazione. Intervista a Simone Fana, esperto di servizi per il lavoro e formazione professionale, coautore, con Marta Fana, di “Basta salari da fame”
Lavoro e Recovery plan Cecilia Fabiano/ LaPresse

Lavoro e Recovery plan. Anche il governo Draghi, in tempo di pandemia, non ha potuto far altro che prorogare il blocco dei licenziamenti fino al 30 giugno e al 31 ottobre a seconda della tipologia di azienda. Si tratta dei soli licenziamenti collettivi e di quelli individuali di tipo economico, ma la regola non vale, ad esempio, in caso di fallimento e cessazione di attività. A fino 2020, l’Istat ha registrato,infatti, una perdita di 444 mila posti di lavoro.

Si comprende perciò l’importanza delle trattative in corso, presso il Ministero dello Sviluppo economico, per oltre 130 dossier di crisi aziendali. Ma la vera sfida che questa crisi impone, non è certo quella di contenere il danno, ma di promuovere una migliore e buona occupazione grazie alla leva del Piano nazionale di ripresa e resilienza da mettere in atto dopo la presentazione e l’approvazione da parte della Ue.

Un grande piano di investimenti per moltiplicare i posti di lavoro, risolvendo la contraddizione stridente tra il declino del numero dei giovani e la loro persistente difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. Abbiamo sentito varie analisi e opinioni in merito. È l’ora, adesso di ascoltare il parere di Simone Fana, esperto di servizi per il lavoro e formazione professionale, coautore, con Marta Fana, diBasta salari da fame”, Laterza editore.

Quali sono, a suo giudizio, le cause reali della disoccupazione giovanile in Italia?
Sono 20 anni che si ripete la litania sul cosiddetto mismatch tra domanda e offerta di lavoro insistendo sulla tesi dei giovani che restano disoccupati perché poco qualificati. Si demanda così ad una formazione che risolverebbe il problema assieme all’introduzione di una maggiore flessibilità delle condizioni di lavoro. Secondo tale visione sarebbe, tra l’altro, la rigidità delle norme vigenti a costituire un ostacolo al libero funzionamento del mercato del lavoro. Tra gli ostacoli presunti anche le pretese dei sindacati, la contrattazione nazionale e la carenza di varietà dei contratti atipici, diversi cioè da quelli di lavoro subordinato. Si tratta, a mio parere, di un’analisi riduttiva e in parte anche sbagliata.

In che senso si tratterebbe di una lettura dei fatti erronea?
Se osserviamo la realtà degli ultimi 10 anni e cioè nel periodo post crisi finanziaria del 2008, possiamo vedere invece che le imprese hanno cercato, in modo prevalente, lavori a basso valore aggiunto, ad esempio nel campo della ristorazione, cioè sul segmento più basso del mercato del lavoro, più povero e meno produttivo, precario e saltuario. In Italia c’è un problema enorme relativo alla tipologia della domanda di lavoro nel settore privato assieme ad una forte contrazione di quello pubblico. Con il blocco delle assunzioni nella PA abbiamo un’età media dei dipendenti che si aggira sui 54 anni. In pratica si è perso in innovazione impendendo contemporaneamente ai giovani un accesso ad un lavoro qualificato, stabile e con prospettive di futuro. L’ultimo paper della Banca d’Italia mostra l’esistenza di numerosi posti vacanti nell’università e nella ricerca. Sono 30 anni, poi, in cui abbiamo visto una riduzione negli investimenti pubblici e nella ricerca con la conseguente contrazione di richiesta di posti di lavoro nei settori strategici dell’alta tecnologia. L’Italia è tra i Paesi occidentali che hanno investito di meno sui brevetti. Il tessuto produttivo fatto di piccole e micro imprese chiede, di norma, lavoro poco qualificato. Le nostre esportazioni prevalenti sono nel settore cosiddetto leggero, tessile e calzaturiero, finendo per collocarsi nel segmento più vulnerabile della divisione internazionale del lavoro.

Con quali conseguenze concrete?
Un giovane che esce dall’università non trova posti di lavoro adeguati alla sua formazione alle sue aspettative. Il vero problema della mancanza di lavoro qualificato e delle percentuali abnormi di disoccupazione giovanile deve rintracciarsi, a mio parere, nella mancanza di una adeguata politica economica e industriale. Con la conseguenza che i giovani sono costretti a lavorare in maniera saltuaria e in maniera anomala, con tirocini e stage reiterati che portano a non prevedere alcuna forma di stabilizzazione, anche dopo 10 anni di questa trafila. Tale gabbia della precarietà si è resa possibile con lo smantellamento del diritto del lavoro avviato dalle riforme cominciate con il pacchetto Treu nel 1997. Dopo la legge Biagi e il Jobs act non esiste alcuna rigidità del mercato del lavoro. Le imprese hanno la massima libertà di assumere a tempo, con contratti atipici e con ampia libertà di licenziamento dopo l’indebolimento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Esiste, invece, un esempio positivo di politica attiva del lavoro da replicare in Italia? Si parla spesso del modello tedesco…
L’elemento di qualità indiscutibile in Germania è il sistema dell’apprendistato che, invece, in Italia è stato, finora, penalizzato. L’apprendistato permette ai giovani di avere un periodo di formazione nel rispetto di tutti i diritti previsti nei normali contratti di lavoro. I tedeschi hanno realizzato una corretta integrazione tra formazione e lavoro, senza ledere il momento formativo vero e proprio e l’aspettativa dei giovani di acquistare stabilità tramite il lavoro. In Italia si è discriminato di fatto tale istituto a favore di forme di inserimento molto più precarie e sottopagate, dagli stage ai tirocini e anche al programma garanzia giovani che non ha funzionato bene, con l’eccezione di alcune regioni, a partire dalla solita Emilia Romagna. Se quindi si vuole puntare sull’apprendistato bisogna fare una scelta netta di politica del lavoro. Investire cioè, con gli incentivi, in questo istituto indebolendo gli altri strumenti fin qui prevalenti, ripeto tirocini e stage, ma molto meno qualificanti.

Ma quale soggetto, in piena crisi, può procedere con queste assunzioni?  Secondo alcuni economisti, dal francese Gael Giraud all’italiano Giovanni Dosi, il momento attuale non può non prevedere la soluzione keynesiana dello Stato che assume gran parte dei lavoratori espulsi dalla crisi per impiegarli in settori strategici di lungo termine. È una tesi che sente di sostenere?
Mi sembra ormai una questione di buon senso. Alla fine della pandemia, se e quando ne usciremo, si prevede la perdita di circa un milione di posti di lavoro, giovani e donne le categorie più colpite. L’unica leva che abbiamo per riassorbire questa disoccupazione è quella pubblica. Attraverso l’assunzione nella PA, dove abbiamo 2 milioni di posti in meno rispetto a quelli che ci servono. Si tratta di sbloccare i concorsi pubblici e di investire nei settori strategici per generare innovazione e buona occupazione anche da parte dei privati. Non è possibile, ad esempio, che nel Mezzogiorno i giovani siano obbligati a lavorare in maniera saltuaria, magari al nero, oppure ad emigrare al Nord o all’estero. Bisogna investire sui distretti innovativi, come l’elettronica, sulle infrastrutture assai carenti al Sud. È questo il momento di dare una svolta alle politiche industriali.

Come si può potenziare il collocamento pubblico che resta il secondo strumento di avviamento al lavoro, dopo le conoscenze personali, e prima delle agenzie interinali?
Come è noto una volta avevamo solamente l’ufficio di collocamento pubblico con una originaria finalità sociale.  Mediava tra domanda e offerta di lavoro senza ridursi ad una prestazione a servizio delle imprese. Con l’introduzione delle agenzie interinali è stato introdotto un sistema parallelo, privato e concorrenziale, che risponde agli interessi delle imprese. Per capire la centralità della questione prestiamo attenzione al lavoro agricolo dove, dietro le agenzie, si nasconde un sottobosco di false cooperative e forme di caporalato. È, quindi, necessario riformare profondamente il collocamento pubblico nel senso di rispondere all’interesse generale con un controllo democratico delle modalità dell’occupazione, ma per essere efficaci occorre anche eliminare la concorrenza costituita dalle agenzie interinali.

Qui il focus di Inchiesta sul lavoro

 

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