Familismo morale
Il consumo non è soluzione alla crisi. Oggi c'è voglia di felicità pubblica. Vanno ripensate le relazioni politiche, le relazioni civili, comunitarie e familiari. Riprendiamo l'editoriale di Avvenire di oggi
Il rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buona notizia per il Paese. Emerge un familismo morale, che è meno raccontato e famoso del familismo amorale di cui si parla e straparla per descrivere il modello italiano. Le relazioni, quelle familiari e comunitarie, sono poste in cima ai valori. E – ciò che il Censis non dice ma che è emerso da una ricerca svolta con un collega dell’Università di Milano-Bicocca (Luca Stanca) – le persone che attribuiscono importanza alla famiglia e alle relazioni sono mediamente anche quelle più felici. Dopo alcuni decenni che hanno visto l’ipertrofia della finanza e del consumismo, questi primi anni di crisi stanno risvegliando una vocazione nazionale che non era morta, ma che si era soltanto assopita, covando viva e calda sotto la cenere.
L’Italia ha una storia di relazioni che dura da oltre duemila anni: la cultura mediterranea, il cristianesimo, lo scambio e il commercio, la cultura cittadina e borghigiana, hanno creato nei secoli una identità dove il valore della relazione è al centro del suo dna. È stato questa rete di 'relazioni tra diversi' che ha fatto grande l’Italia quando è stata grande (Umanesimo civile, Settecento riformatore, Risorgimento, Ricostruzione…); e anche le sue patologie (come certi familismi amorali e alcune forme di mafia), possono anche essere lette come malattie e degenerazioni di questa stessa vocazione alle relazioni. Oggi, allora, in questi tempi di crisi e in questi giorni duri, ci stiamo accorgendo che è molto più interessante e appagante investire tempo nelle relazioni che consumare denaro negli ipermercati. Un secondo dato del rapporto, infatti, si sposa perfettamente con il primo (relazioni): il 57% degli italiani ritiene che nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno intenso rispetto a qualche anno fa. E, cosa molto importante, lo pensa indipendentemente dalla diminuzione del proprio reddito.
È come se ci stessimo accorgendo del bluff di un modello di economia fondato sui consumi: il gioco di pensare di rilanciare una economia in crisi di fiducia e di entusiasmo civile e spirituale rilanciando consumi è durato poco, e ha lasciato tutti scontenti e delusi. È davvero bizzarro, se non offensivo, pensare che in questi tempi di seria diminuzione del reddito reale delle famiglie qualcuno possa pensare che una strada di rilancio dell’economia possa essere tenere aperti i negozi 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.
Il consumismo sostenuto dai debiti, va ricordato, è la malattia della crisi: come può diventarne ora la cura? Certo, c’è bisogno di più crescita economica, ma c’è bisogno soprattutto che la gente ritrovi l’entusiasmo delle relazioni, si rimetta assieme in modo creativo per generare posti di lavoro, e non di gente che passa le serate e i week end nei centri commerciali a sognare, frustrati e con sempre meno soldi in tasca, stili di vita tristi e irreali. I sogni oggi vanno orientati verso la produzione e la generatività, non solo verso i consumi, se vogliamo sperare in meglio. Dovremmo, infatti, ricordare di tanto in tanto che una economia non regge a lungo se trascura i settori primario (agricoltura) e secondario (produzione), e punta troppo sul terziario (commercio e servizi). I Paesi che oggi sono in grave crisi, lo sono anche, e forse soprattutto, perché, anche a causa di politiche europee non sempre lungimiranti, hanno nei decenni passati abbandonato settori tradizionali nei quali avevano saperi e competenze antichi (penso alla pesca e all’agricoltura in Portogallo), per gettarsi su servizi e commercio, settori spesso molto fragili e a basso valore aggiunto reale. Le relazioni familiari e comunitarie non reggono se non sono sostenute da relazioni lavorative serie, che generano reddito e riducono l’incertezza della gente, risorse queste che poi alimentano tutte le altre relazioni della vita.
Il grande economista Albert Hirschman ci ha mostrato che i Paesi non conoscono soltanto i cicli economici (recessione-espansione), ma anche i «cicli della felicità »: fasi storiche nelle quali prevale la ricerca della felicità privata (individuo) che si alternano ad altre nelle quali prevale invece la voglia di felicità pubblica (relazioni). E, come nei cicli economici, una fase prepara l’altra, e quando si arriva al culmine della felicità privata si creano le premesse per il suo superamento verso una stagione di felicità pubblica. Per Hirschman il principale meccanismo che produce il cambio di fase è la delusione .
Oggi siamo nel bel mezzo di uno di questi momenti di "flesso" del ciclo, ma affinché questo desiderio di "felicità pubblica" sia sostenibile e influenzi anche il ciclo economico, occorre subito una nuova politica. Dietro la loro apparente anti-politica gli italiani non stanno chiedendo meno politica, ne stanno chiedendo di più ma diversa, sussidiaria e più leggera. Senza adeguate relazioni politiche, le relazioni civili, comunitarie e familiari non diventano mai motore di quello sviluppo economico e civile di cui abbiamo un vitale bisogno.
L’Italia ha una storia di relazioni che dura da oltre duemila anni: la cultura mediterranea, il cristianesimo, lo scambio e il commercio, la cultura cittadina e borghigiana, hanno creato nei secoli una identità dove il valore della relazione è al centro del suo dna. È stato questa rete di 'relazioni tra diversi' che ha fatto grande l’Italia quando è stata grande (Umanesimo civile, Settecento riformatore, Risorgimento, Ricostruzione…); e anche le sue patologie (come certi familismi amorali e alcune forme di mafia), possono anche essere lette come malattie e degenerazioni di questa stessa vocazione alle relazioni. Oggi, allora, in questi tempi di crisi e in questi giorni duri, ci stiamo accorgendo che è molto più interessante e appagante investire tempo nelle relazioni che consumare denaro negli ipermercati. Un secondo dato del rapporto, infatti, si sposa perfettamente con il primo (relazioni): il 57% degli italiani ritiene che nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno intenso rispetto a qualche anno fa. E, cosa molto importante, lo pensa indipendentemente dalla diminuzione del proprio reddito.
È come se ci stessimo accorgendo del bluff di un modello di economia fondato sui consumi: il gioco di pensare di rilanciare una economia in crisi di fiducia e di entusiasmo civile e spirituale rilanciando consumi è durato poco, e ha lasciato tutti scontenti e delusi. È davvero bizzarro, se non offensivo, pensare che in questi tempi di seria diminuzione del reddito reale delle famiglie qualcuno possa pensare che una strada di rilancio dell’economia possa essere tenere aperti i negozi 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.
Il consumismo sostenuto dai debiti, va ricordato, è la malattia della crisi: come può diventarne ora la cura? Certo, c’è bisogno di più crescita economica, ma c’è bisogno soprattutto che la gente ritrovi l’entusiasmo delle relazioni, si rimetta assieme in modo creativo per generare posti di lavoro, e non di gente che passa le serate e i week end nei centri commerciali a sognare, frustrati e con sempre meno soldi in tasca, stili di vita tristi e irreali. I sogni oggi vanno orientati verso la produzione e la generatività, non solo verso i consumi, se vogliamo sperare in meglio. Dovremmo, infatti, ricordare di tanto in tanto che una economia non regge a lungo se trascura i settori primario (agricoltura) e secondario (produzione), e punta troppo sul terziario (commercio e servizi). I Paesi che oggi sono in grave crisi, lo sono anche, e forse soprattutto, perché, anche a causa di politiche europee non sempre lungimiranti, hanno nei decenni passati abbandonato settori tradizionali nei quali avevano saperi e competenze antichi (penso alla pesca e all’agricoltura in Portogallo), per gettarsi su servizi e commercio, settori spesso molto fragili e a basso valore aggiunto reale. Le relazioni familiari e comunitarie non reggono se non sono sostenute da relazioni lavorative serie, che generano reddito e riducono l’incertezza della gente, risorse queste che poi alimentano tutte le altre relazioni della vita.
Il grande economista Albert Hirschman ci ha mostrato che i Paesi non conoscono soltanto i cicli economici (recessione-espansione), ma anche i «cicli della felicità »: fasi storiche nelle quali prevale la ricerca della felicità privata (individuo) che si alternano ad altre nelle quali prevale invece la voglia di felicità pubblica (relazioni). E, come nei cicli economici, una fase prepara l’altra, e quando si arriva al culmine della felicità privata si creano le premesse per il suo superamento verso una stagione di felicità pubblica. Per Hirschman il principale meccanismo che produce il cambio di fase è la delusione .
Oggi siamo nel bel mezzo di uno di questi momenti di "flesso" del ciclo, ma affinché questo desiderio di "felicità pubblica" sia sostenibile e influenzi anche il ciclo economico, occorre subito una nuova politica. Dietro la loro apparente anti-politica gli italiani non stanno chiedendo meno politica, ne stanno chiedendo di più ma diversa, sussidiaria e più leggera. Senza adeguate relazioni politiche, le relazioni civili, comunitarie e familiari non diventano mai motore di quello sviluppo economico e civile di cui abbiamo un vitale bisogno.
Luigino Bruni sarà ospite della trasmissione L'Infedele di Gad Lerner alle 21.10 di lunedì 19 marzo