Famiglie:”consumare” o “condividere”?

Da diversi mesi gli italiani sono invitati a consumare di più, incrementando la spesa quotidiana con acquisti evidentemente non sempre indispensabili, allo scopo di aumentare il fatturato delle imprese produttrici e tentare di invertire così l’andamento della crisi economica. Questi consigli, sempre più pressanti ed espliciti, arrivano da fonte autorevole, e proprio in momenti quasi drammatici, mentre l’Eurispes quantifica in due milioni e mezzo le famiglie povere e in altri due milioni e 400 mila le famiglie a rischio povertà; vale a dire quasi dieci milioni di italiani che vanno a far la spesa coi soldi contati. Cosa serva chiedere ai consumatori di spendere più denaro quando ce n’hanno di meno, non si sa. In Italia il potere d’acquisto del ceto medio è calato nell’ultimo anno del 20 per cento. Nonostante tante buone intenzioni, siamo ancora il fanalino di coda in Europa negli stanziamenti statali per la famiglia, con lo 0,9 per cento della ricchezza nazionale contro una media europea del 2,3 per cento. Inoltre, siamo il paese europeo con meno agevolazioni fiscali per la famiglia, soprattutto se numerosa. L’invito quindi a spendere di più, ha in sé un chè di schizofrenico (dal punto di vista sociale), ma quello che più dispiace è il sapore eticamente ambiguo della proposta. Siamo sicuri che il primo comandamento reciti proprio: il tasso di crescita del paese – il cosiddetto Pil, Prodotto interno lordo – non deve mai rallentare? Siamo certi che oltre al mito del consumo infinito non ci siano altri obiettivi? Non esistono altri modelli di benessere da proporre a famiglie già discriminate da una cultura in cui tutto è mercato, sempre più preoccupate per il presente e per il futuro? Far riprendere l’economia nazionale che significa? Basta puntare quasi solo sulla ripresa dei consumi? E poi, consumare solo prodotti italiani? Ha un senso tutto ciò in una comunità mondiale sempre più globalizzata? Famiglie, gruppi, movimenti, che da decenni si orientano e si adoperano per un consumo equo, ecologico e solidale, sono a disagio e si pongono delle domande. Il nostro paese ormai è il mondo, un mondo dominato da due tendenze divenute di fatto ideologie spesso in conflitto: quella economica (che ha come riferimento il mercato) e quella sociale (portatrice di valori come la solidarietà e la gratuità e che ha come principio base la famiglia). Cresce sempre più negli addetti ai lavori la convinzione che il passaggio politico e culturale per uscire dall’impasse starebbe in una economia sociale, cioè una economia d’impresa arricchita al suo interno da altre dimensioni oltre il profitto. E sappiamo anche che in questo senso ci sono lavori in corso da parte di imprenditori ed economisti, come l’esperienza di economia di comunione. Ci sembra però che l’imperativo strumentale di consumare di più vada contro la natura stessa dell’essere famiglia, che ha nella eticità della condotta, nel risparmio per il domani, nella ricerca del superfluo da condividere coi deboli e coi minus habentes, una delle sue specificità. Quindi precisiamo: per noi, mangiare più del necessario e consumare più del dovuto è un peccato, e, più esattamente (secondo i Padri della chiesa), un furto. O forse il riferimento alle nostre radici cristiane è opportuno solo quando ci fa politicamente comodo? Un popolo di vera, matura democrazia non può reggersi su un aumento illimitato del Pil, ma sulla crescita del suo tasso di umanità, che si arricchisce condividendo beni e cultura, e si rinforza salvando e rinnovando il proprio spazio vitale con tutte le sue risorse. Perché la sfida oggi è coniugare mercato e vita civile, efficienza e solidarietà, economia e comunione

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