Falene scottate

Conosco Daniele Capuano da molti anni, recentemente l’ho avuto validissimo collaboratore al Novecento letterario italiano ed europeo pubblicato da Città Nuova (dei molti capitoli da lui scritti voglio ricordare quelli su Michelstaedter, Rilke, Mandel’?stam, Benjamin, Beckett…); e se dovessi descriverlo in una parola riproporrei quella di Milena Jesenskà su Kafka: “È senza pelle”. Per questo in lui l’esperienza del dolore, coestesa all’esistenza, non si accontenta del montaliano “male di vivere” ma scaturisce come una sorgente alta tra la concavità della sensibilitàintelligenza e lo strato impermeabile di un’autocoscienza acuta, inflessibile: ed è l’orizzonte stesso in cui “tutto declina troppo chiaramente/ l’esilio, e nel tempo lo commenta”; come leggo nella poesia Il cabbalista ritorna dal mercato raccolta con altri testi poetici, in versi e in prosa, nella silloge Falene scottate (Ed. Orient Express). Capuano, studioso, oltre che di letteratura, di mistica ebraica e islamica, ed egli stesso nella sua genealogia transito e ponte ebraico-cristiano, ha l’evidente vocazione e destino di percorrere le strade “impossibili”, tanto più, nel loro incrocio, dell’altissimo e dell’Inabissato, di Dio e di Cristo; percependole, come la falena del titolo, “nella vampa” a cui si accosta consumandosi, ma anche dicendosi: “Più non sei verme, ancora non sei fuoco”” Logorato “dall’esilio e dalla speranza”, come lo presenta, con i suoi antenati, la notizia in apertura, alla ricerca di “un po’ di pace in quel Volto di sapienza e di dolore, e radici in quell’Albero insanguinato”. In altre parole: dell’ebraismo Capuano non gode la conservazione come rifugio, del cristanesimo non lucra la tradizione come normalità, come appiglio sicuro; e perciò respira la possente ansietà biblica (privata però di conferme e trionfi) nella più oscura e tragica quotidianità: “Non cercare la croce.(…)/ Sei già (non puoi nasconderlo)/ fuori Gerusalemme tutta d’oro,/ fuori dal Tempio, e fra un tuo passo e l’altro/ già calpesti la strada degli schiavi,/ quella che nuda sale verso il colle”. Per il cristiano-cristiano queste parole sono inquietanti (perché richiamano al crudo del Vangelo), come per l’ebreo-ebreo sono “scandalose” e per il secolarizzato nichilista “stolte”: come direbbe san Paolo. Ma ne esce un volto di Dio di lacerante bellezza e di sconvolgente (è l’ora!) universalità: “Tu hai accolto nelle radici del cuore ogni bestemmia possibile. La Tua carne è il Tuo oblìo, l’oblio del Tuo onore; Ti fa saporito: per questo le mandibole dei Tuoi figli gareggiano con quelle del Nemico nello strapparTi dal Tuo osso. Qual è la differenza, Ti chiesi un giorno? Mi rispondesti velato da tutti i mali, col silenzio fluente e visibile di tutti i mali dei mondi”. È il volto insuperabile dei “Gesù Abbandonato” sulla croce, che, spiega Chiara Lubich, “ha riempito ogni vuoto, ha illuminato ogni tenebra”. Capuano non ha varcato, in questo libro, la “soglia” della Croce, perché è giunto a sostare su di essa (come già Henri Bergson e Simone Weil) sentendola “pietrificata” dal dolore – così è detto in una stupenda poesia di Georg Trakl che entrambi amiamo. Dio ha il presentimento del passo di scambio e di abbraccio: “Io mi saprò in Te quando Tu Ti saprai in me”, e già scolpisce la sua, personale Pietà: “Sta’ morto con noi quest’oggi, questa notte, infimo fra i combattenti, Signore degli Eserciti, Signore delle disfatte”. Sulla soglia non varcata interpreta il proprio nome Daniele oltre che etimologicamente (in ebraico “il mio giudice è Dio”) poeticamente: “Sarò forse il limite,/ il rifiuto – e la ripida bellezza,/ rossa di tante mischie desolate,/ lo scolo dove l’opera di Dio/ (giudice a me e a se stesso) si purifica?”. Diventa a questo punto del tutto limpida l’iniziale Introduzione/Testamento: “Chiuditi nella stupidità come nella fragile custodia dello stupore.(…) Come rischi ad ogni istante di perdere la scienza dell’attesa!(…) Chiuditi nei fondali del tuo sangue. (…) Sei un pitocco, non hai da temere”. Le poesie, le prose, le stesse traduzioni, testimoniano che a ventisei anni Daniele Capuano è il miglior poeta della sua generazione.

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