Facciamo risorgere i desideri

Bisogna tornare a vivere con passione la quotidianità per riappropriarsi delle proprie inclinazioni e libertà. Articolo pubblicato sul n. 7/2024 di Città Nuova
Unsplash- Austin Neill

Desiderio è diventata una parola del nostro tempo. E si capisce, perché è una parola prima della vita. Lo è sempre, ma in modo speciale e diverso quando il desiderio si svolge all’interno di una vocazione e di una comunità spirituale, quando si ha a che fare con persone che spendono la propria vita per ideali grandi. In queste esperienze il primo dono che fa chi inizia un cammino spirituale è il dono dei propri desideri. Liberamente egli sceglie di investire tutto nella nuova Promessa. Non vive la sua risposta come sacrificio, né, tantomeno, come perdita. Nel rinunciare a progetti e desideri individuali vede soltanto una possibilità infinita di fiorire diversamente in un nuovo Eden. Così, il nuovo desiderio di oggi che appare infinito assorbe in sé tutti gli altri desideri di ieri, fino a diventare un giorno l’unico desiderio che si vuole desiderare. E così, il desiderio della comunità sacrifica i desideri delle sue persone. Le altre storie e gli altri racconti nostri e del mondo perdono fascino e interesse, smettiamo di desiderarli perché ci appaiono troppo piccoli e banali. La biodiversità dei sentimenti, delle parole, dei desideri, degli interessi, delle storie, della vita si riduce drammaticamente, non ci interessano più. Tutti desideriamo la stessa Cosa, e non vogliamo altro. Si desiderano soltanto le cose che la nuova comunità desidera e ci dice di dover desiderare. Il desiderio della comunità diventa l’unico desiderio buono, consigliato, raccomandato.
In questo processo di dono del desiderio e dei desideri, che può durare decenni, all’inizio abbiamo l’impressione di espandere la nostra libertà, e in genere è proprio così. Ma poi, paradossalmente, col passare del tempo la libertà inizia a ridursi. Le comunità umane nate da ideali accolgono il dono dei desideri delle persone e lo immolano sull’altare del desiderio della comunità. Il posto dei desideri individuali sacrificati viene preso dall’unico desiderio collettivo. Perché accade ciò? Perché le intuizioni carismatiche sanno o intuiscono che, se i desideri delle persone rimangono liberi, portano con sé il rischio della fine della comunità, che può vivere solo se desiderata massimamente dai loro membri e desiderata negli stessi modi e forme. La scrittura di regole e statuti dettagliatissimi spesso è anche la manifestazione, inconscia, di questo bisogno di controllare e orientare i desideri dei membri presenti e futuri. E così si dimenticano che per mantenere vive le cose umane non c’è altra garanzia della libertà-senza-garanzie.
Tutto questo processo diventa decisivo nei passaggi generazionali dopo i fondatori. Le crisi che in questi passaggi si manifestano sono infatti espressione della crisi dei desideri donati e sacrificati dai loro membri. I membri delle comunità entrano in crisi perché non riescono più desiderare l’Ideale di ieri, troppo legati alle persone fisiche dei fondatori. Le persone abituate a desiderare soltanto quelle cose definite desiderabili dalla comunità, si ritrovano con il muscolo del desiderio atrofizzato. Non desiderano più nulla, e non sanno vivere e scrivere storie desiderabili. Da qui una apatia collettiva di eros, di vita, che si ritrova soprattutto in quelle persone che erano state più generose e pure. È il tempo della rabbia, della delusione, della voglia di cancellare e dimenticare il grande desiderio collettivo e unico di ieri, che ormai è percepito come inganno e illusione.

Che fare quando si attraversano queste fasi, molto dolorose e difficili? Intanto occorre evitare di scambiare la cura con la malattia, che si verifica quando si invitano le persone spente e apatiche a desiderare nuovamente le stesse cose di sempre, presentando la carestia di desideri di oggi come colpa. In realtà servirebbe soltanto far risorgere i desideri. Come? Una buona strada sta nel ricominciare (o iniziare) ad ascoltare le storie quotidiane delle famiglie dei nostri amici e colleghi, le loro ordinarie storie di lavoro, di fatica, di amore; ascoltare i poveri non per aiutarli ma perché ci interessano veramente. Imparare di nuovo a desiderare il nostro lavoro, apparecchiare una tavola, curare una pianta. Desiderare il profumo dei prati, la luce delle stelle, il colore degli occhi di chi ci parla, il cane che scodinzola e ci fa festa. Smettere di pensare alle realtà che ieri desideravamo e oggi non ci dicono più molto, incluse le realtà religiose e spirituali. Tornare alla terra, alla vita, agli amici, alla natura, al mare, al vento. Lì rimparare il mestiere del vivere, e da lì potranno rinascere nuovi desideri, anche collettivi. Desideri di nuovo grandi come quelli dei primi tempi, forse solo più adulti e purificati. A risorgere si impara.

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