Evitiamo “guerre” con la Cina
Tutto sommato, il quadro è quanto mai semplice: molti dei prodotti che da tempo la gente più compra, le aziende della Penisola non li producono. Il cellulare che sta nella vostra tasca o nella borsetta non è italiano. Eppure, siamo uno dei mercati più fiorenti, con un numero di telefonini superiore al totale dei cittadini. L’esempio indica dove stiamo andando. Anzi, dove già siamo. Rileva sconsolato Luca di Montezemolo, presidente di Confindustria: L’Italia, rispetto a un’Europa che già non sta correndo, si pone come fanalino di coda in fatto di competitività. L’economia mondiale sta tirando. Gli Stati Uniti in questo periodo viaggiano quattro volte più veloci del Vecchio continente. Dunque, la gente in tanta parte del pianeta continua a comprare. I bei nomi di casa nostra reggono ancora. Ferrari, Tod’s, Technogym, Luxottica, Ferrero, Armani ed altri sono sufficientemente forti e La bilancia commerciale del nostro paese ha registrato nel 2004 un passivo. Non succedeva dal 1992. Potrebbe consolarci il fatto che Francia e Spagna non stanno volando e che Germania e Olanda sono quasi ferme, ma sarebbe ben misera soddisfazione. Lo sa bene quell’uomo accorto che è il presidente Ciampi, il quale non perde occasione per dare la sveglia sul tema della competitività. I suoi viaggi in Cina (dicembre) e in India (febbraio) sono diventati appuntamenti promozionali del made in Italy e opportunità per accordi commerciali e intese aziendali. Quello asiatico è un mercato che non ci può vedere assenti, perché non basta che siano ancora positivi i nostri saldi commerciali con Usa, Gran Bretagna, Spagna ed Europa del Centro-Est. Resta vero che tanti prodotti che i tedeschi e gli americani compravano in Italia, da qualche tempo li acquistano dai cinesi. Il cosiddetto pericolo giallo non è più alle porte. È entrato in casa e guadagna sempre più spazio. Dal primo gennaio di quest’anno, infatti, non è più in vigore il contingentamento delle importazioni che aveva regolato il commercio mondiale dell’abbigliamento. Ma non è una decisione improvvisa. Lo smantellamento delle quote di importazioni fu negoziato dieci anni fa, proprio per dare il tempo di ristrutturarsi alle aziende minacciate dalla concorrenza dei nuovi paesi emergenti. In Italia, nel settore tessile e calzature sono occupate oltre 800 mila persone. Adesso, un quinto di esse sta rischiando la perdita del posto di lavoro. Per loro, dieci anni sono passati quasi invano. La caduta delle quote mette a nudo la pochezza delle strategie commerciali del nostro sistema produttivo, ma anche la scarsa lungimiranza della dirigenza del paese. A metà marzo, dopo sei mesi di rinvii, è stato varato dal governo un piano di rilancio della competitività. Stanziati 4 miliardi di euro (oltre ai 6 previsti nel fondo rotativo) per tonificare il comparto industriale nei prossimi quattro anni, intensificata la lotta alla contraffazione dei marchi del made in Italy con pene più severe per chi compra prodotti falsi e per chi contrabbanda, riformati gli incentivi alle imprese. Critici i sindacati, tiepidi gli industriali. Adesso i provvedimenti dovranno venire approvati dal parlamento. Servirebbero tempi brevi. Respinta, invece, dal Consiglio dei ministri la richiesta di dazi alle importazioni avanzata dalla Lega. Una guerra commerciale con l’Oriente è quanto di meno indicato in questo momento. Con il colosso cinese (e le altre economie asiatiche) la prova di forza non giova a nulla. Piuttosto, guardiamo alla Cina non solo come a un minaccioso concorrente. È il terzo mercato d’importazione del mondo dopo gli Stati Uniti e l’Unione europea, e molti suoi settori sono liberalizzati e aperti agli stranieri. Affrettiamoci a creare i prodotti più adatti per quell’area. L’ECONOMISTA DEAGLIO Sosteniamo le nuove idee Diffido di ricette preconfezionate per il caso italiano I problemi sono nuovi, avverte Mario Deaglio, docente di economia internazionale all’università di Torino. Abbiamo una situazione nuova dal punto di vista demografico – siamo un paese vecchio, e che invecchia molto rapidamente -, e nuova dal punto di vista geopolitico e geoeconomico. Stiamo assistendo a questa incredibile ascesa della Cina, che in pochissimi anni ha scavalcato Germania e Francia ed è oggi la terza economia mondiale. Dobbiamo quindi partire dal presupposto che una parte del terreno perduto non lo recupereremo più. E il percorso di recupero sarà lungo. È inutile dare false speranza che in poco tempo si metterà tutto a posto. Quali misure, secondo lei, potrebbero risultare più efficaci? Chiedere ai paesi esportatori in Europa il rispetto della legge soprattutto per quanto riguarda le contraffazioni e i contrabbandi, che ci arrecano le maggiori difficoltà. Il governo cinese e quelli di altri paesi sono oggi più sensibili alle nostre pressioni, e qualche cosa si è incominciato a fare. Poi, bisogna impostare un discorso di gradualità con la Cina e i paesi orientali. Essi, cioè, non possono pensare di continuare a invadere i mercati con la rapidità con cui l’hanno fatto. In fondo, la clausola di salvaguardia che esisteva nel Mercato comune europeo potrebbe essere applicata su scala mondiale, ovvero: distribuiamo gli aumenti dei flussi delle merci su un certo numero di anni, con una sorta di freno autonomo da parte dei paesi esportatori in modo che le nostre economie abbiano il tempo di riadattarsi. Se il periodo fosse ridotto a 6-12-18 mesi, non ce la faremmo. In quel caso, restano solo misure protezionistiche? Non vedo altro che l’aumento delle tariffe o provvedimenti analoghi, con la prospettiva però di guerra commerciale che non è augurabile. È molto meglio trovare la via di un accordo pragmatico in base al quale loro stessi riducono il tasso di crescita delle esportazioni di prodotti industriali nostri concorrenti. La sensibilità non manca. All’inizio di quest’anno, quando è scaduto l’accordo multifibre, che assicurava protezione con un dazio sulle importazioni tessili dai paesi dell’Asia, i cinesi hanno sostituito il dazio scaduto con un dazio sulle loro esportazioni. Per cui noi non abbiamo avuto un aggravamento. Come migliorare la competitività dell’Italia? Il termine competitività è molto di moda adesso e si pensa che sia una sorta di amuleto che basta sbandierarlo per ripristinare tutto. Dovremmo avere invece ben chiaro che la competitività vuol dire sacrifici. Non basta semplicemente modificare la struttura delle imposte, varare qualche provvedimento che non costa, e di colpo diventiamo competitivi. In un mondo in cui c’è gente che per fare le stesse cose dei nostri lavoratori accetta di guadagnare un terzo, la competitività vuol dire o inventare prodotti nuovi oppure ridurre i nostri redditi. Non è che abbiamo tante alternative. Cosa non le va del dibattito in corso? C’è un atteggiamento diffuso in giro tra tutti, industriali, sindacati, eccetera, secondo cui la competitività significa impegnare il governo a spendere più soldi. In realtà, a livello nazionale dovremmo fare un esame di coscienza, perché competitività vuol dire rinunciare a qualche cosa in modo da destinare le risorse risparmiate su alcune voci di spesa che possono accrescere la nostra presenza sui mercati internazionali. Si tratta di una spesa diversa, non di una spesa aggiuntiva. In questa situazione, quanto ha pesato l’euro forte? Ha pesato abbastanza su alcune aree del made in Italy di bassa qualità, perché quella è una zona in cui la nostra competitività non esiste più, e allora basta un piccolo innalzamento della moneta per trovarsi fuori mercato. Le industrie tessili di Prato hanno perso i mercati perché è stato sufficiente lo scarto del 5-10 per cento dato dalla moneta che si apprezzava che gli americani hanno comprato in Cina e non più da noi. Quei settori o si ammodernano o chiudono. Quali caratteristiche del sistema Italia occorrerebbe valorizzare in questo frangente? Bisogna fare un esame tranquillo e spassionato, con l’idea che dai settori dai quali siamo usciti non si rientra più. Perché così categorico? Ma, scusi. Abbiamo venduto tutta la chimica, la farmaceutica, vari settori della meccanica. Lei crede che un’industria chimica si possa rifare da zero? Se parliamo di politiche nazionali, quelli sono settori perduti. Per nostra fortuna, nascono nuovi settori tutti i giorni. Segnali di vitalità? Certo. Provengono da settori piccoli, come, ad esempio, tutto il comparto che va dalle biotecnologie sino all’elettronica, in cui le imprese italiane sono abbastanza presenti. È opportuno, perciò, individuare i singoli microsettori in cui andiamo bene e investire su qualcuno di questi in modo che diventi leader mondiale. Nel settore degli apparecchi medicali, ad esempio, l’Italia è molto presente, ha imprese medie e medio-piccole. E questo è un rischio. Motivo? Prima di tutto perché possono essere acquistate facilmente da aziende straniere. Poi, perché sono spesso imprese famigliari, nate da intuizioni o invenzioni di uno, i cui figli, magari, non sono ugualmente bravi e non sono capaci di sviluppare l’azienda. Mentre nella competizione attuale, chi non cresce viene espulso. Bisognerebbe perciò favorire un po’ le concentrazioni a livello di settori in tutte queste microattività che però occupano molte persone e su quelle creare delle condizioni favorevoli perché possano operare. E invece non si vedono iniziative al riguardo. Perché? Oggi pochi imprenditori sono capaci di rischiare. E poi ci sono grosse responsabilità da parte del mondo del credito. Serve un sistema creditizio che favorisca questo tipo di concentrazioni e servono imprese aperte ad andare in borsa. Come rimediare? Bisogna iniziare con società finanziarie – pubbliche o private, o parzialmente pubbliche o private -, che investano in queste imprese con lo scopo di farle crescere, prepararle e poi metterle sul mercato, mantenendone i caratteri italiani in quanto possibile, e alla fine uscirne. Nulla vieta poi che queste aziende facciano acquisizioni anche all’estero. Per assicurarsi un futuro, bisogna raggiungere dimensione molto grandi anche se il settore è specialistico. Ripeto, non partiremmo da zero. Si tratta di fare un censimento analitico e iniziare. Quali misure adottare nei settori che stanno andando male? Bisogna reinventarli. Fiat è un esempio. Così com’è, anche se i tre nuovi modelli andranno bene, non ha un orizzonte autonomo molto lungo. Abbiamo l’esempio di Renault, che stava anche peggio di Fiat, mentre ora, dopo dieci anni di cura, sta benissimo. Adesso la Francia, nel settore auto, ha posizioni consolidate. Noi, invece, rischiamo di uscire anche da quello. E questo vale un po’ per tutto. Vale a livello bancario, assicurativo, di grandi industrie. Eppure, abbiamo tante possibilità di azione e, per fortuna, i soldi, come paese, non mancano. Si tratta di individuare le politiche, i poli sui quali puntare e di agire di conseguenza. Però occorre darsi un tempo di dieci anni come minimo. Ciampi e Montezemolo vanno ribadendo la necessità del gioco di squadra tra le componenti del paese. Dal suo osservatorio, come suona l’invito? Un nobile richiamo o una metodologia indispensabile? È qualcosa di più di un nobile richiamo. Tutte le volte che l’Italia ha avuto delle espansioni o dei recuperi, al di là delle polemiche, c’è stata una condivisione di fondo su alcuni punti. La condivisione degli obiettivi è indispensabile. Altrimenti, è inutile provare a stare sui mercati internazionali. Con un po’ di retorica, chiamiamolo spirito di squadra o altro, ma resta il fatto che bisogna essere d’accordo su certe cose. Attenzione, però. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. C’è bisogno che gli imprenditori abbiano nuove idee e il paese scommetta su quelle. PEZZOTTA, CISL PUNTARE SULLA QUALITÀ Segretario Pezzotta, incominciamo dall’auto. Nell’impegno a rilanciare la Fiat, la dirigenza aziendale e la famiglia Agnelli hanno invitato gli italiani a comprare auto italiane. Come valuta il consiglio? Gli inviti, le dichiarazioni e l’atteggiamento in generale della nuova dirigenza della Fiat, lo stesso ingresso dei componenti più giovani della famiglia Agnelli nella gestione dell’azienda rappresentano sicuramente un segnale forte di un rinnovato impegno della proprietà nel settore auto, soprattutto in una fase delicata come questa per la storia e il futuro della Fiat. È evidente però che, più che gli inviti, contano i dati sulle immatricolazioni, e che per assicurare il futuro della Fiat serve un piano industriale serio, servono modelli e una rete commerciale in grado di competere con la concorrenza straniera. Questo, e non altro, riporterà gli italiani a comprare auto italiane. C’è da dire anche che non è sufficiente il mercato italiano a risolvere il futuro della Fiat: oggi è impossibile pensare a una industria dell’auto chiusa nei confini di un mercato nazionale. Produrre auto in Italia sarà ancora possibile in futuro, visto il basso costo del lavoro in oriente? Non solo il settore auto, direi tutto il sistema industriale italiano, e non solo italiano, si trova ora di fronte a questa svolta: decidere se inseguire una competitività al ribasso, puntando al minimo del costo del lavoro e inseguendo – di delocalizzazione in delocalizzazione – il basso costo, o se scegliere di innovare e collocarsi in una competizione alta, basata su qualità e specificità del prodotto. Abbiamo ancora tempo e possibilità per scegliere? È il tema che il settore industriale sta affrontando e dovrà affrontare nei prossimi anni, una scelta strategica dalla quale dipende il futuro industriale, economico ed occupazionale del paese. Il sindacato è convinto che non si possa dare un futuro al sistema industriale impoverendolo progressivamente rincorrendo il costo del lavoro. Da questo punto di vista, c’è anche una questione morale da affrontare, rispetto alle condizioni di lavoro praticate in molti paesi a basso costo che non possiamo che combattere. Il sindacato è convinto che ci si possa fare o resta solo una battaglia di retroguardia? Noi crediamo che l’industria italiana abbia in sé energia e capacità per ricollocarsi in quella fascia alta di competizione, e che questa sia la strada da seguire facendoci responsabili assieme agli imprenditori e alla politica di questa difficile fase di transizione. Si parla di intervento pubblico per sostenere ricerca e innovazione. Quali, secondo lei, le priorità? Andrebbero create condizioni d’incentivazione delle aziende e dei capitali disposti a investire in ricerca e innovazione, agendo, ad esempio, sulla fiscalità, condizioni favorevoli di domanda pubblica, condizioni favorevoli nella qualità della formazione delle risorse umane. Bisognerebbe pure rivedere e agevolare la registrazione di brevetti. E invece… Invece da troppo tempo non ci si è occupati di ricerca e innovazione, e ci troviamo oggi con le migliori menti italiane costrette ad andare a lavorare all’estero, con le poche aziende italiane rimaste nei settori di punta costrette a procedere da sole, mentre il mondo pubblico della ricerca e università vive una difficile riforma senza la costruzione di sinergie vere e stabili con il sistema produttivo. C’è bisogno di un progetto complessivo, a lungo respiro, di un percorso che sappia andare oltre i tempi delle legislature e delle campagne elettorali. Ci troviamo invece di fronte a una serie di interventi parziali, contingenti che evaporano le già scarse risorse esistenti in una piccola pioggia di aiuti con effetti sul sistema prossimi allo zero.