Eutanasia o accanimento terapeutico?
«Di fronte a recenti fatti e dibattiti che hanno rimesso in luce il tema dell’eutanasia, l’insegnante ci ha proposto di esprimere il nostro parere. Mi sono trovata a mal partito ad esprimere ciò che distingue l’eutanasia dal rifiuto dell’accanimento terapeutico…».
Una studentessa
In linea di principio, la distinzione è chiara: un conto è intervenire in maniera diretta a “togliere” la vita (ad esempio, mediante un’iniezione letale) e un conto è arrendersi di fronte all’ineluttabilità, non ponendo terapie che appaiono “sproporzionate”; un conto è la “morte su richiesta” e un conto è l’opposizione al “prolungamento artificiale della vita”.
Bisogna riconoscere che, a volte, il confine tra le due situazioni appare veramente sottile: una somministrazione di morfina per calmare un dolore lancinante, pur accelerando il cammino verso la morte, è un reale servizio alla persona in situazione estrema. Viceversa, il nutrimento e l’idratazione, sia pure per via artificiale, non autonoma, possono essere considerati una forma di cura straordinaria? Anche un neonato non è in grado di nutrirsi autonomamente, ma nessuno si sognerebbe mai di negargli ciò che gli permette di vivere.
Il cuore della questione è sempre la persona: non sono le circostanze a dare il senso di ciò che è “vita” e di ciò che è “morte”. Chi si avvicina alla morte non è un “caso” clinico, ma un essere umano, con tutti i diritti delle fasi precedenti, semmai con una connotazione nuova: l’esigenza di solidarietà e attenzione rinnovata, legata allo stato in cui si trova.
Ci sono certamente casi in cui il dolore sembra diventare “insopportabile” e appare un atto di pietà intervenire per accelerare la conclusione di un cammino apparentemente inutile. Il termine stesso ci offre un’indicazione: “sop-portare” significa “portare sotto”, cioè sostenere. Se non c’è nessuno che con me porta quel dolore, quell’esperienza di amarezza e di apparente inutilità, allora veramente il dolore diventa senza sopportazione.
tongan@alice.it