Eurovision Song Contest: la musica oltre la guerra

Con il trionfo annunciato della band ucraina Kalush Orchestra, davanti a Regno Unito e Spagna, il Festival della canzone europea s’è chiuso con grandi ascolti e generali consensi, a sottolineare il rilancio dell’evento dopo la vittoria dei Maneskin nella scorsa edizione
Eurovision
Kalush Orchestra (AP Photo/Luca Bruno)

Da che esiste, l’Europa musicale è frammentata almeno quanto quella politica: semplificando, da una parte gli innovatori e i trendisti guidati dalle solite popstar planetarie, e dall’altra i provinciali, quelli ancora appesi a gusti e stilemi vecchi di almeno 30 anni – con l’Ovest più modernista e l’Est più tradizionalista – anche se la  globalizzazione ha un po’ sfumato gli estremi e sparigliato un po’ le carte: perché se da un lato certi atavici provincialismi e scimmiottamenti hanno sottolineato i gap ancora presenti – con il grosso dei concorrenti a fare il verso a questo o a quella –, dall’altro da questo Eurovision è emerso un generale uniformarsi ai trend generali: con  il pop danzereccio a surclassare le etnicità e le peculiarità stilistiche dei vari Paesi, il trionfo delle ostentazioni gender-fluid e lo strapotere delle esibizioni e delle mise sulla qualità dei brani in gara.

La guerra in corso, ma anche la febbre d’evasione post-Covid, hanno ovviamente condizionato un evento sul quale Mamma Rai non ha lesinato sforzi e investimenti, mettendo in vetrina uno show ipertecnologico tracimante di luci e di effetti speciali, con una grandeur che poco aveva da invidiare ai mega-show statunitensi. E se Torino ha sfruttato l’occasione per promuoversi, dall’altro tutta l’Italia ha messo in mostra un po’ delle sue infinite bellezze in una serie di cartoline dronate che a conti fatti sono state l’unico ingrediente dello show dove la bellezza più autentica ha trionfato sui sensazionalismi (nonostante la discutibile soluzione di giustapporvi le immagini dei vari concorrenti).

Quanto alle canzoni, questa 66esima edizione ha offerto poco di memorabile, a parte la Kalush Orchestra, con quella strofa da brividi, di questi tempi: «Troverò sempre la strada di casa anche se tutte le strade sono distrutte» a dar ancora più pathos a una canzone fatta apposta per materializzare la voglia di pace che si respira in tutta Europa e che solo certa politica pare non voler ascoltare. Oltre a loro ha certamente lasciato il segno la talentuosa svedesina Cornelia Jakobs e mi hanno piacevolmente sorpreso anche le proposte dell’Armenia, della Croazia e dell’Azerbaijan. Solo sesti gli attesissimi rappresentanti nostrani, Mahmood & Blanco.

Detto questo, l’evento – lo spettacolo non sportivo più visto al mondo – è stato costruito e si è srotolato con elvetica precisione appena intralciata da certi stucchevoli contrappunti di Malgioglio, perfetta incarnazione del degrado kitsch spacciato per originalità raggiunto dalla nostra tivù. Ma nel complesso un grande show che è stato insieme una vetrina dell’Italia odierna e il faticoso ricompattarsi dell’Europa, tra guerra e voglia di pace.

Arrivederci all’anno prossimo: a Mariupol, ha già promesso Zelensky.

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