Europa, una sola patria
Dopo il parziale fallimento del vertice di Bruxelles arenato su alcuni dei punti nodali per la costruzione dell’edificio europeo, quali l’accordo sulla futura Costituzione e la riforma del sistema di voto in Consiglio, si vanno rimescolando le carte con una velocità che progressivamente aumenta per l’approssimarsi dei grandi appuntamenti di primavera: l’allargamento dell’Unione e le elezioni per il rinnovo del Parlamento. A sorpresa, Chirac, Schroeder e Blair si sono incontrati a Berlino, avendo al seguito uno stuolo di ministri e di esperti per un vertice esclusivo ed escludente dal quale è uscita la proposta di dotare l’Unione di un super coordinatore per l’economia. La reazione degli esclusi è stata immediata. L’intesa dei tre partner più forti in campo economico, che insieme superano il prodotto lordo dei ventidue restanti, è stata definita come un direttorio. Inaccettabile perché contraddice alla filosofia stessa su cui l’Unione si basa. Forte l’irritazione di alcuni, soprattutto dell’Italia e della Spagna, primi tra gli esclusi; e sono fioccate dichiarazioni che tradivano l’evidente risentimento. Si è prodotta addirittura, promossa da Aznar, una controlista in cui alla Spagna si aggiungevano Italia, Olanda, Portogallo, Polonia ed Estonia per chiedere che il patto di stabilità, violato a Bruxelles, si applicasse su base non discriminatoria. Ma la domanda vera che tutti si sono posti, quella che più inquietava gli esclusi e con loro anche la Commissione di Bruxelles, era un’altra: stiamo andando verso una Europa a due velocità? L’ipotesi non è di oggi. Se ne parlava, già molti anni fa, come di una formula di cui non ci si doveva scandalizzare se fosse servita temporaneamente per non rallentare la spinta propulsiva che la Comunità aveva messo in moto; formula che, allo stesso tempo, avrebbe consentito un allargamento fisiologico verso paesi economicamente meno forti, incapaci di reggere il passo dei primi. Va tenuto presente però che a quel tempo la Cortina di ferro che divideva il continente sembrava destinata a durare, per cui l’Europa, anche quella potenziale, risultava ben circoscritta e abbastanza omogenea. Quell’ipotesi, come sappiamo, non si avverò, mentre col passare del tempo le regole comunitarie introdotte, consentendo deroghe temporanee, venivano calibrate in modo da permettere via via l’adesione dei diversi postulanti. Il che rallentava, ma rendeva più solido il processo di unificazione. È stato di recente, con l’introduzione dell’euro e con l’accettazione non plenaria di esso, che è nata di fatto un’Europa a due velocità. E senza creare gravi traumi. Forse perché la grande maggioranza dei paesi europei ha aderito alla moneta unica, e anche perché si può ritenere che prima o poi pure gli autoesclusi aderiranno. Non è questo, allora, il vero timore che il cosiddetto direttorio dei tre paesi più forti ha generato, bensì che la fuga in avanti di alcuni si trasformi di fatto in una regressione, per il possibile prevalere di interessi nazionali che i più forti potrebbero imporre ai più deboli, in netto contrasto con lo spirito che ha dettato finora l’evolversi positivo dell’organismo comunitario. Fare buon viso a cattiva sorte sarà alla fine l’unico atteggiamento possibile per chi è stato estromesso? Pur con la consueta prudenza il presidente Prodi ha espresso nella circostanza le sue perplessità: Sono sempre favorevole alle proposte di paesi che vogliono procedere -, ha dichiarato alla stampa – ma non so se sia questo il caso (“). È chiaro che è cominciato uno di quei processi dialettici che sono frequenti in Europa (“), il vero problema di questi incontri è che le porte restino aperte. Si vedrà dunque, quando si avvierà un dialogo, se le proposte dei Tre nascondano un progetto di direttorio o se si avvierà un confronto costruttivo. Ma Prodi, benché ottimista per natura, ipotizza anche che non di avanguardia, bensì di retroguardia potrebbe trattarsi se si esaminano gli ultimi avvenimenti che hanno visto la Commissione lasciata sola a promuovere lo spirito europeo, come nel caso recente dell’accordo raggiunto dai ministri delle Finanze per lasciare in sospeso il Patto di stabilità. In sostanza si deve riconoscere che stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato. Un’Europa di piccole patrie guidate da tanti piccoli De Gaulle, si chiamino Chirac, Schroeder o Blair, ma anche Aznar, Berlusconi o Kwasniewski, non sarà mai quella unita di domani, ma somiglierà fin troppo a quella divisa e litigiosa di un tempo. Dove i piccoli si accoderanno ai più grandi come nei secoli bui della nostra storia. Perché anche l’Europa non può nascere dall’alto. È la gente che deve imparare a distinguere e a scegliere democraticamente, come fa per il proprio paese. Ormai ciò che attiene all’Europa riguarda ciascuno. È l’Europa la nostra nuova patria. I giovani l’hanno capito.