Europa, punto e a capo

Articolo

Con il nuovo anno sarebbe dovuta arrivare in regalo ad alcune centinaia di milioni di europei la nuova Costituzione. Un documento controverso e certamente imperfetto, ma perfettibile nel tempo e comunque indispensabile per proseguire il cammino insieme – così si sperava – più speditamente. Ma nel sacco dei regali il più atteso non c’era. Da euroentusiasti quali eravamo e vorremmo continuare a restare, abbiamo accusato il colpo. Diciamoci francamente la verità: quando, ai tempi supplementari concessi alla maratona di Bruxelles per trovare un accordo sul contenzioso ancora aperto, ci si è arresi rimandando l’intesa a tempi migliori, nessuno, proprio nessuno ha potuto dirsi vincitore, né tantomeno soddisfatto. Una dimostrazione in più, se ce ne fosse stato bisogno, che l’unanimità, per il buon funzionamento dell’Unione, porta allo stallo. Abbiamo perduto tutti, perché la coperta che ciascuno voleva tirare dalla propria parte si è strappata. E, dicendo tutti, intendo noi cittadini, mentre gli attori, cioè i capi di stato o di governo che ci rappresentavano, più che il futuro dell’Unione, avevano in mente soprattutto le prossime elezioni: politiche in alcuni paesi, e quelle europee per tutti. A questo punto si capisce che, se ciascuno gioca al ribasso portando l’Europa al livello dei propri egoismi nazionali, è meglio attendere tempi più favorevoli. Questa volta gli imputati per l’insuccesso sono apparsi Spagna e Polonia che hanno preteso per sé lo status delle maggiori potenze. Dico potenze, perché i partner, piuttosto che a soci fondatori di una comunità di popoli, somigliavano a plenipotenziari riuniti dopo un conflitto intorno a un tavolo di pace per spartirsi le sfere di influenza. Ma tant’è: Francia e Germania con le loro intese privilegiate non avevano forse già cominciato da tempo a comportarsi come tali? E non è forse vero che l’Europa a due velocità, di cui si è minacciato o auspicato l’avvento, già esiste da quando questi due paesi hanno preso a muoversi per conto loro? Per non parlare della politica che gli Stati Uniti vanno sviluppando, che contribuisce a mantenere divisi fra loro i paesi dell’Unione. Sono state scritte parole di fuoco dai vecchi europeisti di rango per bollare questi infingimenti. E non è stato difficile stilare le tappe successive di questa regressione prodotta da chi, mostrando di non tollerare i ritardi altrui, si muove da solo, ma conduce il convoglio a ritroso. Né si può dire che destra e sinistra in Europa giochino su versanti opposti, essendo assolutamente trasversale – nei fatti, più che nelle parole – il fronte su cui si contrappongono europeisti e antieuropeisti. L’ultimo strappo alle regole fissate a suo tempo proprio dalla Germania, quando nacque la moneta unica, lo ha prodotto Schröder (uomo di sinistra) alleandosi con Chirac (uomo di destra) per infrangere il Patto di stabilità. In questo quadro, al di là del linguaggio spesso inadeguato, ci è sembrata corretta nelle intenzioni, ma assai debole nei fatti, la mediazione tentata dall’Italia durante il semestre di presidenza appena concluso. “Meglio nessun accordo che un cattivo accordo” è stato l’eufemismo usato per mascherare la delusione. Fiero e sdegnato, ma certo più dignitoso, il verdetto della presidenza della Commissione europea che non ha avuto paura di usare parole forti per bollare un’Unione che, se non è concorde, non esiste. Com’è ormai da tempo suo costume, anche il nostro presidente Ciampi ha levato alto un monito, purtroppo inascoltato: “Per anni si è ripetuto che l’adeguamento delle istituzioni doveva costituire una premessa essenziale dell’allargamento. Ora che l’allargamento è alle porte, abbiamo la responsabilità di non dilazionare l’indispensabile rafforzamento delle istituzioni (“). I nuovi stati membri sono accolti a braccia aperte”. Purché “tutti comprendano che il processo di integrazione non può stabilizzarsi sul minimo comune denominatore”. E allora? Punto e a capo. Si ricomincia. Quando un movimento rotatorio tocca il suo punto più basso, se non si ferma, può solo risalire. Lo disse già un ottimista per le sorti dell’unità d’Italia dopo la “fatal Novara”. È quanto ci si aspetta in questo anno per l’Europa che vedrà rinnovato dal voto popolare il parlamento di Strasburgo e, cosa del tutto nuova, aprirà le porte a ben dieci nuovi paesi, cambiando con ciò completamente i vecchi equilibri dentro e fuori dei propri confini. E, a questo proposito, un altro rimprovero dovremmo farci per la totale assenza dell’Europa, che pure avrebbe titolo per proporsi con autorevolezza, sullo scenario internazionale. Non più solo mercanti, dovrebbero essere questi europei, ma propositori e, semmai, custodi pacifici di quei valori di civiltà che la cultura europea ha prodotto. Non per imporli, certo, ma per offrirli in una prospettiva che non può non avere come punto focale la pace. Forse è proprio questo il primo nodo da sciogliere, non nei grandi discorsi e forse nemmeno più soltanto nelle piazze, ma nell’intimo di ciascuno per convenire che essa si fonda su priorità, come ha ripetuto il papa a Capodanno, invitando a sostituire al diritto della forza la forza del diritto, e a mettere l’Onu in condizioni di funzionare efficacemente. I maggiori rappresentanti delle grandi religioni, i saggi che hanno voce anche fra gli spiriti laici, gli hanno fatto eco. E la gente “di buona volontà” si unisce a questo grido. A un così vasto consenso vogliamo aggiungere anche la nostra voce per poter augurare a tutti, dentro e fuori dell’Europa, un anno che ci porti più vicini alla pace.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons