Europa e i prestiti del Mes, una questione di fiducia

Un contributo in merito al dibattito sul ricorso ai prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e la capacità di immaginare e costruire un migliore futuro
MES Valdis Dombrovskis Paolo Gentiloni (Aris Oikonomou, AP)

In omaggio ad un noto proverbio, la questione “Mes sì o Mes no” si potrebbe formulare così: un gatto assetato, che ne ha visto un altro scottato da una pentola di acqua bollente, fa bene a rifiutare un pentolino d’acqua che potrebbe dissetarlo?

Penso si intuisca che il gatto titubante è l’Italia, che la sete di cui soffre è di liquidi finanziari, che l’acqua bollente sono i prestiti concessi alla Grecia ma solo a condizione che adottasse una stringente e dolorosa austerità e, infine, che l’acqua di cui il gatto non si fida tanto sono i prestiti che il Mes è pronto a concedere al nostro Paese.

Questa volta sarebbe davvero acqua rinfrescante, come ci assicurano i commissari europei? O sarebbe di nuovo ustionante per via di condizioni nascoste nelle pieghe dell’accordo?  Ecco il dilemma.

Cerchiamo di capire meglio come stanno le cose, iniziando dalla vicenda greca, che può essere sintetizzata in alcuni dati. Il Prodotto interno lordo è tuttora inferiore di oltre il 20% al valore del 2008, dopo un lungo decennio di depressione accompagnata da un’altissima disoccupazione, arrivata ad una punta del 27% nel 2013 e pari ancora al 17% nel 2019.

Molti ricorderanno le cronache che descrivevano la chiusura dei negozi nelle strade di Atene, il diffondersi della povertà anche nel ceto medio e la fuga all’estero dei giovani. Con la beffa che, come bel risultato di tanti sacrifici e nonostante i creditori abbiano abbuonato parte del dovuto, il debito pubblico è fortemente cresciuto (allo scoppio della crisi era pari al 120% del PIL, nel 2019 aveva superato il 170%).

Troppo complesso sarebbe ripercorrere la concatenazione di eventi che ha portato ad un simile disastro. Tuttavia c’è una larga convergenza nell’indicare tra le più importanti: la forzatura che fu l’ingresso nella moneta unica, a dispetto della lontananza della Grecia dalla situazione dei Paesi partner. E poi i  trucchi contabili usati per nascondere il grande debito pubblico e in qualche modo tollerati dai partner europei; la continuazione di ampi deficit di bilancio pubblico, approfittando dei bassi tassi di interesse portati in dono dall’ingresso nell’euro.

Si deve ricordare, inoltre, il silenzio interessato dei Paesi europei più forti, ben felici delle ottime opportunità per l’industria di esportare verso la Grecia e per le banche di prestarle denaro. Insomma un salvataggio mal gestito che andò in buona parte a vantaggio delle banche estere creditrici.

Ecco perché in Italia, che è più solida ma ha molti problemi in comune con la Grecia, si sente un  certo brivido alla schiena al solo sentir nominare la sigla Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, l’istituzione comunitaria incaricata appunto di gestire gli aiuti ai Paesi membri in difficoltà).

La partita odierna, però, è abbastanza diversa da quella ellenica del 2012. Se in quel caso si trattava di riportare all’equilibrio le finanze pubbliche di un singolo Paese responsabile di averlo perso, questa volta si riconosce che il fattore destabilizzante, l’epidemia, non è frutto di mala gestione e riguarda tutti i Paesi, anche se alcuni sono stati colpiti più degli altri.

L’intervento non sarebbe quindi il tipico salvataggio di uno Stato a rischio di insolvenza, accompagnato da un severo piano di risanamento, ma sarebbe mirato a far fronte alle maggiori spese sanitarie causate dal Covid 19 e a finanziare il miglioramento delle strutture di cura e prevenzione.

Per questo la condizione principale – e i relativi controlli – riguardano il fatto che i 36 miliardi che potrebbero toccare all’Italia siano davvero destinati a tali finalità.

Oltre a ciò il monitoraggio del buon uso del prestito sarebbe di competenza della sola Commissione Europea, il che dissipa il terrore di dover trattare, come la Grecia, con tutta la temutissima “troika”, formata anche dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale Europea.

Infine, il tasso sarebbe molto conveniente (circa mezzo punto percentuale) e quindi tale da far risparmiare oltre due miliardi di interessi nei sette anni del prestito.

In realtà le cose sono un po’ più complesse di così, perché in caso di inadempienza le istituzioni europee potrebbero comunque porre delle condizioni alle nostre scelte di finanza pubblica.

È anche vero però che questo potrebbe accadere ugualmente, anche se non attingessimo al Mes, come già avvenuto soprattutto in occasione della legge finanziaria del 2018. Per inciso, la cosa mi parrebbe inevitabile, dato che un Paese membro che finisca in gravi difficoltà finanziarie è un problema per tutti.

Esistono, peraltro, dei precedenti incoraggianti. Parallelamente alla Grecia, hanno beneficiato di interventi di sostegno finanziario da parte delle istituzioni europee anche Irlanda, Portogallo e Spagna, e le cose sono andate molto meglio; nel caso dell’Irlanda sono andate in modo addirittura strabiliante: tra il 2012 e il 2019 il PIL è cresciuto di oltre il 70%.

Alla fine è una questione di fiducia. Pensiamo che la cuoca europea vada proprio cercando di scottare il gatto italico? O pensiamo invece che non lo voglia, e magari dall’esperienza di questi anni abbia anche imparato qualche accorgimento per evitarlo?

Mi si permetta, a questo punto, un giudizio del tutto personale. Alla fine della seconda guerra mondiale i Paesi fondatori della Comunità Europea erano tutti gatti super-scottati. Eppure sono stati capaci di immaginare che il futuro potesse non essere la ripetizione di un passato costellato di reciproche sanguinose malefatte, e così ci hanno assicurato sette decenni di pace e di prosperità condivisa.

In generale credo che non dobbiamo lasciarci paralizzare dal ricordo delle passate colpe altrui al punto da non poter immaginare che, in circostanze nuove, possano emergere comportamenti migliori.

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