Europa libera dalle guerre

Le radici del "Manifesto della Pace" proposto dai giovani del Genfest della Calabria
Sacrificio di Isacco del Caravaggio La riproduzione è parte della collezione di riproduzioni stilata dal The Yorck Project. Il copyright di tale collezione nel suo complesso è della Zenodot Verlagsgesellschaft mbH e licenziata secondo i termini della GNU Free Documentation License.

Cosa accadrebbe se alcuni giovani provenienti da alcuni Paesi del Mediterraneo si incontrassero per discutere assieme di Europa, pace, religione e politica? Cosa accadrebbe se a dare voce alle questioni politiche più urgenti fossero giovani provenienti dall’Italia, dal Nord Africa e dal Medio Oriente che vivono sulla loro pelle l’esperienza drammatica della disoccupazione, della precarietà o addirittura della guerra?

Un’esperienza simile si era già vista nel luglio del 2023 quando si era riunito a Firenze il primo Consiglio dei giovani del Mediterraneo. Anche quest’anno a Lamezia Terme circa 400 giovani provenienti da varie parti d’Italia e da alcune aree del Mediterraneo si sono ritrovati in occasione del Genfest 2024. Le 5 giornate calabresi si sono rivelate un’incontro gioioso di fraternità e di amicizia che ha permesso a tutti un profondo scambio di esperienze e di idee per provare ad immaginare un’Europa senza più armi e senza guerre.

Tra i vari workshop e laboratori che hanno scandito le giornate del Genfest, uno tra questi è stato dedicato alla redazione di un Manifesto dei Giovani del Mediterraneo dal titolo: “I care for you”. Scriviamo insieme il Manifesto del Genfest.

I Care” era il messaggio con cui don Milani accoglieva i suoi studenti di Barbiana ed è stato anche il tema che ha fatto da sfondo alle giornate organizzate a Lamezia dai giovani del Movimento dei focolari: “Prendiamoci cura, dal Brasile alla Calabria”. Forse in pochi sanno che il prete di Barbiana aveva scelto la frase inglese “I Care” (che tradotto significa “Mi interessa, ne ho cura”) non solo per mostrare a chi entrava nella sua scuola il progetto educativo che lo animava, fondato sul senso di responsabilità e di dedizione per la cura dell’altro, ma era diventato anche un chiaro manifesto politico che voleva contrapporsi al titolo di una canzone del 1936 che con il suo “Me ne frego” mutuava la retorica totalitaria e narcisista del regime fascista.

Nella metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, mentre don Milani fondava la sua scuola a Barbiana, “I Care” rappresentava una sfida politica e una protesta sociale silenziosa che si contrapponeva alla mentalità individualista del tempo. Perché allora scrivere oggi un Manifesto? Da dove nasce l’esigenza di una tale “chiamata alle armi” del pensiero e della pace come avrebbe voluto lo stesso don Milani?

Si vis pacem, para bellum

“Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Per secoli la cultura occidentale, quella greca prima e quella romana poi, ci ha insegnato che la sicurezza e la crescita economica di una nazione si possono ottenere solo attraverso altri nuovi conflitti e guerre strategiche. La pace è solo una delle due facce della medaglia di ogni possibile convivenza tra i popoli.

Fin dai tempi di Esiodo infatti, pace e guerra, armonia e conflitto rappresentano i due poli del pensiero dialettico. È proprio Esiodo che immagina la genesi del mondo come una grande lotta per la sopravvivenza. Nella sua Teogonia il grande poeta greco ci trasmette l’idea che all’origine del mondo non vi è semplicemente il Caos (come nel racconto biblico di Genesi), ma il conflitto (polemos). È per questo motivo che Crono, per sfuggire all’ira del padre Urano, è costretto ad evirarlo, così come Zeus per affermare la propria supremazia nell’Olimpo deve uccidere Crono e liberare i suoi fratelli dal ventre del padre che li aveva divorati.

Le grandi narrazioni dell’Antica Grecia, dai miti alle tragedie, hanno lo scopo di rivelarci una mentalità segnata dal conflitto. Si tratta di un modo di pensare che ritroviamo in tutti i filosofi dell’antichità. Eraclito di Efeso affermava, ad esempio, che «Polemos è padre di tutte le cose». Questo significa che non c’è vita senza la morte e non c’è pace senza la guerra. L’una non è mai senza l’altra.

Il polemos è quindi all’origine di ogni relazione, spesso caratterizzata anche dalla violenza. Per secoli i racconti teogonici dei poeti greci e il pensiero degli antichi filosofi hanno nutrito la mente e guidato le azioni di migliaia di generazioni di uomini e di donne. Questo è il motivo per il quale l’intellettuale ebreo Emmanuel Levinas scrive la sua opera più importante Totalità e Infinito nel 1961 per denunciare la logica violenta e fratricida su cui si reggeva l’intero impianto metafisico del pensiero occidentale.

Atene a Gerusalemme

Alle radici culturali dell’Europa, però, non troviamo solo la tradizione greca. Un’altra fonte della nostra cultura occidentale è rappresentata certamente dalla Bibbia e dal cristianesimo. Atene e Gerusalemme sono le città simbolo della cultura europea. La grande cultura greca e la millenaria tradizione biblica hanno trovato nella letteratura neotestamentaria le nuove coordinate con cui leggere la storia dell’umanità e interpretare il mondo.

Certo, questo non toglie il fatto che l’Antico Testamento non ci risparmia racconti di battaglie e di guerre, spesso autorizzate da Jahvè, tra Israele e i suoi nemici, ad esempio contro i temuti Cananei e gli acerrimi Filistei. Tuttavia, Israele si rivela spesso inadatto a vincere da sola le grandi battaglie. Andare in guerra nella Bibbia è quasi sempre metafora di un altro tipo di lotta, più latente e profonda, che Israele deve muovere contro la propria idolatria e infedeltà al Signore, anziché contro nemici in carne e ossa. Forse è anche per questo che l’antico Israele è stato vittima di clamorosi sconfitte e di dolorosissime deportazioni; mentre la pace è stata sempre vissuta come un dono di Dio, spesso inaspettato, concesso a quel resto del popolo di Dio che si era mantenuto fedele all’Alleanza.

Sacrifici senza più vittime

Cosa ne facciamo, però, di quei terribili racconti in cui il Dio della Bibbia sembra chiedere ai suoi servi più fedeli sacrifici enormi come nel caso di Abramo? Chi è il Dio della Bibbia che chiede al “cavaliere della fede”, come lo chiama il filosofo danese Kierkegaard, di sacrificare il proprio figlio? Michelangelo Merisi da Caravaggio ha ritratto in modo davvero straordinario la scena narrata in Genesi 22 nel suo capolavoro “il sacrificio di Isacco”. Nella drammatica scena disegnata dal pittore italiano vediamo la mano di Abramo pronta a colpire con ferocia il corpo inerme del figlio adolescente, mentre quest’ultimo è legato come se fosse lui il sacrificio espiatorio da offrire a Dio sull’altare del monte Moira. Conosciamo però l’esito del racconto: un angelo del Signore ferma per tempo la mano del patriarca e gli indica un ariete impigliato in un cespuglio quale vittima sostitutiva da offrire al posto del figlio.

Leggendo i racconti degli antichi popoli pagani, greci compresi, sembra quasi riprodursi anche nel mito biblico di Genesi la narrazione violenta di un padre pronto ad uccidere un figlio in obbedienza al comando divino. L’autore di Genesi 22, infatti, sembra richiamarsi agli antichi racconti dei vicini popoli pagani in cui si narrava che gli dèi chiedevano sempre sacrifici umani per placare la loro ira oppure per ottenere dei benefici. Eppure, proprio sul momento più drammatico, il racconto biblico ha un esito diverso: Abramo obbedisce sì alla richiesta insolita di Dio, ma sul monte dove il “Signore provvede” nessun figlio sarà più sacrificato. Infatti, Jahvé non permetterà ad Abramo di uccidere suo figlio perché Egli non è il Dio chiede sacrifici umani. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio che salva e che dà la vita ai figli, senza chiedere nulla in cambio.

Una vittima senza più sacrifici

I riti legati ai sacrifici espiatori accomunavano molte delle tradizioni arcaiche. Studiosi come René Girard, Silvano Petrosino e, più recentemente, anche Massimo Recalcati[1], sostengono l’idea che il racconto della passione e della morte di Gesù narrato nei Vangeli abbia, per così dire, sradicato e superato una certa “logica del sacrificio” che era proprio delle tradizioni antiche. Secondo l’antropologo francese Girard il “il sacrificio” antico era il simbolo di un dispositivo inconscio e collettivo finalizzato a spostare sulla “vittima sacrificale” la tensione aggressiva che permeava il corpo sociale. La società possiede come il bisogno innato a indirizzare verso qualcuno la sua forza violenta e irrazionale così che il capro espiatorio prescelto diventa la vittima sacrificale perfetta a polarizzare la forza distruttiva la quale permetteva alla comunità, in qualche modo, di liberarsene.

Nel caso specifico di Gesù questo meccanismo si interrompe perché egli assume la posizione di “vittima” non nella forma distruttiva della coercizione, cioè del “sacrificio retributivo”, ma nella forma generativa dell’offerta assoluta di sé al disegno del Padre. Dice infatti Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18).

In forza di questa frase di Gesù, seguendo il ragionamento di Girard, il Vangelo svela il carattere menzognero di tutti i sacrifici e rivela altresì l’essenza retributiva e perversa di ogni altro “fantasma sacrificale” (Recalcati). Per Gesù non è in gioco il linciaggio sociale ma la scelta del figlio di farsi “agnello” per la salvezza del mondo. Gesù è colui che attraversa la logica perversa e distruttiva del fantasma sacrificale per liberare l’uomo dalla seduzione di qualsiasi sacrificio retributivo.

Per Gesù è l’amore che permette di superare ogni logica sacrificale, compresa la dialettica del polemos che la alimenta. Non basta desiderare la pace, bisogna amare il proprio nemico! Questo è il cuore dell’insegnamento di Gesù nei Vangeli: non basta cercare la pace per superare la guerra, bisogna imparare ad amare il prossimo e a riconoscersi fratelli.

Guerra e sacrificio

La logica del sacrificio espiatorio non riguardava solo i popoli della Mesopotamia o della Grecia che si affacciavano sul Mediterraneo. La cultura europea ha continuato a intendere la guerra come un sacrificio necessario da richiedere periodicamente ai propri cittadini per l’espansione dei territori e per la crescita delle proprie finanze.

Per secoli l’Europa è stata scenario di guerre sanguinose e violentissime, spesso avallate anche da motivi religiosi. Infatti, quando religione e potere si sono alleate, è venuta meno ogni forma di fede nel “Dio misericordioso” adorato dalle tre grandi religioni monoteiste che gravitano attorno al bacino del Mediterraneo: dalle 8 crociate alla guerra dei cent’anni, dalle guerre di religione di Francia e Inghilterra alle guerre d’Indipendenza, dalle due Guerre Mondiali ai conflitti più recenti come quelli in Iran e in Iraq (1980-1989), la guerra del Golfo (1990-1991) e le guerre jugoslave (1992-1995); fino a oggi, la guerra in Ucraina iniziata nel 2022 e quella di Gaza scoppiata nell’ottobre 2023.

L’Europa ha iniziato a dire di “no” alla guerra solo nell’ultimo secolo e lo ha fatto con trattati di pace e armistizi che hanno posto fine a grandi e piccoli conflitti, spesso però con importanti compromessi e con spese altissime a carico delle nazioni vinte.

Ricordiamo, ad esempio, come al termine della Seconda Guerra Mondiale, tra l’estate e l’autunno del 1946, la diplomazia di 21 nazioni riunite a Parigi stabilì i termini della pace mondiale e il futuro assetto geopolitico internazionale imponendo gravi sanzioni finanziarie e militari ai Paesi sconfitti e una nuova definizione dei confini che divennero presto al centro di spinose questioni territoriali. Nel caso dell’Italia, la perdita dell’Istria e della Dalmazia e l’esodo di milioni di italiani dagli ex possedimenti coloniali. Nel caso della Germania, il prezzo salatissimo della propria sconfitta fu quello di una forte crisi economica e di una nazione divisa per decenni. La pace di “questo mondo”, infatti, ha sempre richiesto un prezzo altissimo da pagare perché risultato di strategie politiche ed economiche dettate più dall’interesse che dal perdono.

Pace e fraternità

È vero. L’insegnamento di Gesù non sembra mettere al centro del suo messaggio la pace così come la intendiamo noi normalmente. Egli afferma infatti: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34). Gesù non è certamente un guerrafondaio, né possiamo credere che per lui la pace non sia importante, tutt’altro. Egli dice anche: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Gesù sembra portare, allora, una pace diversa da quella “che dà il mondo”.

Sì, perché la pace di questo mondo è poca cosa rispetto al suo messaggio rivoluzionario. Per Gesù non basta volere la pace, bisogna cercare l’amore e riconoscersi fratelli, cioè figli dello stesso Padre. Non è la pace che si contrappone alla guerra, ma sono l’amore e la fraternità. Per il Vangelo se la pace non nasce dalla vera fraternità, è semplicemente un vile compromesso. In questo senso, solo la fraternità e l’unità tra le diverse fedi potranno garantire la pace per l’Europa di oggi e di domani.

Alla luce di queste convinzioni, alcuni giovani del Genfest hanno voluto a mettersi in ascolto di uomini e di donne che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale hanno provato a costruire un’Europa più libera e unita. Il frutto di questo ascolto è stato un lavoro che li ha portati a scrivere un vero e proprio Manifesto della Pace per Europa e il Mediterraneo. Si tratta di 10 articoli con i quali i giovani del Genfest hanno voluto lanciare un appello alle istituzioni europee e nazionali, indicando loro la via per la costruzione di un’Europa e di un Mediterraneo di pace e di fraternità.

Qui il link al testo del Manifesto

[1] Vedi R. Girard, Il sacrificio, Raffaello Cortina, Milano 2004; S. Petrosino, Il sacrificio sospeso, Jaca Book, Milano 2000; M. Recalcati, Contro il sacrificio, Raffaello Cortina, Milano 2017.

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