Europa, Erasmo e la guerra

La discussione sul piano di riarmo europeo ha fatto riemergere la grande questione sul fondamento e la stessa idea di Europa, che ha radici molto antiche.

National Gallery, London Foto da Wikipedia di pubblico dominio
Una figura che compare in maniera ricorrente è quella di Erasmo di Rotterdam (1466- 1536) riconosciuto come ispiratore della stessa Unione Europea, un grande pensatore umanistico che aveva pensato, nel cuore della sua epoca segnata delle divisioni che si apriranno nel Continente, ad un’Europa unita da una cultura di pace. Ne abbiamo parlato con don Settimio Luciano, docente di Filosofia teoretica presso l’Istituto di Teologia Abruzzese-Molisano Pianum di Chieti. Il professor Luciano è autore di numerosi testi di approfondimento, tra cui “Guerra alle guerre. L’invito di Erasmo da Rotterdam a sacrificare la vita per la pace”, pubblicato nel 2013 da Effatà editrice.
Come si può interpretare storicamente l’opposizione radicale di Erasmo da Rotterdam alla guerra?
Prima di parlare dell’atteggiamento di Erasmo da Rotterdam nei confronti della guerra, occorre fare una premessa legata al fatto che egli non approva, in qualsiasi ambito, la violenza. Basti ricordare il suo più netto rifiuto in campo educativo in un contesto dove era “normale” (alla sua epoca) una sorta di sadismo dei “maestri” sugli allievi, che subivano vere e proprie torture: legati e spesso battuti o frustati. Solitamente Erasmo da Rotterdam, nelle posizioni che esprime, si rifà ai classici o a visioni già espresse in passato. Per quanto riguarda la guerra, in vari testi lui esprime un vero e proprio autentico disgusto, e nelle descrizioni dei campi di battaglia e degli stupri sulle donne e sulle carestie e malattie che ne seguono, fa sentire tutto questo con un linguaggio vivo e incisivo.
Ma quale è la caratteristica più innovativa del suo pensiero nel merito?
Nelle sue opere si oppone al concetto di “guerra giusta”, rimarcando come la guerra sia sempre negativa. Nel fare ciò non ha alcuna remora a contrapporsi a tutta una tradizione che ha nel suo alveo nomi illustri come s. Agostino, s. Bernardo di Chiaravalle e s. Tommaso d’Aquino, solo per citarne alcuni. Quando discute sugli ottomani, che stavano mettendo a ferro e fuoco l’Europa e tanti luoghi legati al Cristianesimo, sottolinea che il Vangelo andrebbe proposto con la carità e la persuasione. Sugli ottomani va contro anche il concetto, tanto in auge nella Guerra del golfo, di “guerra preventiva” ammettendo solo una guerra di difesa e nient’altro. Tanto più perché diceva, a chiare lettere, che una auspicata crociata aveva di mira non la difesa della religione cristiana, ma i territori e le ricchezze dei turchi.
Che tipo di seguito avevano, in quel tempo, queste sue posizioni?
Quelle erasmiane erano tutte posizioni “minoritarie”, per quell’epoca estremamente coraggiose, ed erano espresse da un gruppo ristretto che lasciava parlare una ragione disposta al dialogo e non alla chiusura. Su questa scia si possono ricordare, fra tanti, personaggi come Raimondo Lullo e Nicolò Cusano.
Quali indicazioni si possono cogliere oggi dalle riflessioni di Erasmo da Rotterdam?
Innanzitutto la coscienza della bruttezza della guerra. Come già accennato prima, la sua scrittura, elegante, forbita e altamente comunicativa, mette dinanzi agli occhi del lettore quanto avviene nei campi di battaglia: la violenza, il cinismo, la malvagità con cui l’uomo può scatenarsi contro un altro uomo. Per lui questo rappresentava il fallimento dell’essere umano che era fatto per la relazione, per la pace, per l’amore e la fraternità. Se c’è qualcosa che si può prendere dal “tesoro” erasmiano, è proprio questa visione ottimistica e positiva della persona, che smussa alla radice la logica della violenza che si nutre di una visione malvagia dell’uomo (che non bisogna misconoscere ma che non ne esprime le profondità) e della logica della politica riletta alla luce della dicotomia amico-nemico. C’è anche un aspetto psicologico-spirituale da riprendere.
Di cosa si tratta?
Ad esempio nella discussione con Lutero sulla questione della libertà, Erasmo cerca di far valere, purtroppo inascoltato da tutte le parti in gioco, la forza della diplomazia, che apparteneva alla sua indole pacifica e alla cultura olandese della sua epoca.
E Lutero come rispondeva?
Spesso il grande Riformista, nelle risposte al maestro umanista, utilizzava un linguaggio volgare e scurrile, molto violento, che cercava di colpirlo a livello personale come quando gli ricordava, con epiteti feroci, che lui era figlio illegittimo, figlio di N.N., offese a cui il noto olandese non ha mai risposto con altrettanta veemenza, ma con una scrittura argomentata, viva e disposta al confronto.
Ci fu un chiarimento tra i due?
Quando, anni dopo, vari seguaci di Lutero gli fecero notare che era stato troppo negativo nei confronti di Erasmo, questo gli scrisse una lettera di scuse. A essa il noto umanista rispose dicendo che delle sue offese personali non ne avrebbe tenuto conto, ma che non gli avrebbe perdonato i “libelli” scritti in lingua tedesca dove il Riformista si scagliava contro la rivolta dei contadini invitando i principi tedeschi a “scannarli come cani” (l’espressione è propria di Lutero). Da parte erasmiana tutto ciò non è facile retorica: la violenza non è mai giustificabile ed è sempre auspicabile tentare di mettersi nei panni dell’avversario per confrontarsi e accordarsi senza ricorrere alle armi. L’arte della diplomazia e del confronto devono venire per prime, sempre.
Fino a poco tempo fa era facile criticare le benedizioni delle armi nelle guerre mondiali, ma la guerra in Ucraina ci mostra questi gesti comuni rivolti ai soldati al fronte. In fondo resta valido l’invito ad obbedire comunque alle autorità legittime in caso di guerra e di limitarsi ad “uccidere senza odio”?
La benedizione è per le persone e non per le armi. Comunque fa sempre una certa impressione vedere preti, con insegne liturgiche, fare l’atto di benedizione con l’aspersorio verso soldati destinati al fronte: destinati a morire e far morire. Occorrerebbe concretizzare quanto Kant suggeriva in un piccolo ma intenso e preziosissimo testo dove si parla di pace “perpetua”, di pace duratura e non di pace come temporanea sospensione della guerra.
Cosa proponeva Kant?
In quel testo citato il filosofo prussiano suggerisce che sia il popolo, con un voto, a decidere se si debba andare in guerra o meno, facendo presente lo scotto che pagherà l’intera nazione: perdita di vite giovani, futuri massacri, danni di guerra da risarcire e tutto il resto. È una bella provocazione: quale popolo accetterebbe di andare in guerra a cuor leggero? Resta il fatto che in caso di attacco si ha diritto alla difesa ben sapendo che si scatenerà la violenza che il più delle volte colpisce le persone più fragili della società: vecchi, donne e bambini. A ciò occorre aggiungere anche qualche parola sul “dopo”.
In che senso “dopo”?
Per il “dopo”, invito a leggere i racconti della vita di chi è stato internato in un campo di concentramento o è prigioniero di guerra: le ferite interiori, le insonnie e gli incubi hanno perseguitato le vittime per la loro intera esistenza. Ciò vale anche per chi ha compiuto soprusi e carneficine: i soldati che ritornano dal fronte sono persone profondamente ferite per il male e l’odio che comunque hanno scatenato. I frutti avvelenati della guerra sono anche questo e occorrerebbe tenerne conto.
Sono valide ancora, come da catechismo ufficiale, le condizioni della guerra giusta? E in mancanza di tali requisiti, come nel caso della guerra in Iraq del 2003, esiste un’autorità morale che è tenuta ad invitare alla disobbedienza? Oppure è una questione rimessa alla coscienza personale?
La guerra giusta non esiste e gli studi storici, su un determinato evento anche come quello della guerra in Iraq, possono offrire riletture diverse che mostrano come e quanto si scateni in senso deleterio l’ideologia e come il più delle volte i conflitti avrebbero potuto essere evitati. Oltre a ciò c’è tanta ipocrisia perché dietro ogni guerra si nascondono interessi di natura economica: questo valeva ai tempi di Erasmo e oggi la musica non è cambiata. Riguardo alla disobbedienza vi sono varie maniere di affrontare e gestire tale argomento. Penso che il più sicuro riguarda i diritti umani: quando viene chiesto di compiere un’azione che lede tali diritti, non si è tenuti a obbedire. Se viene chiesto a una persona di torturare un’altra, come si può obbedire? E un’autorità morale non dovrebbe dichiarare esecrabile tale atto come altri analoghi? Così è di qualsiasi azione che rende schiava o strumentalizzabile un’altra persona.
Come si può valutare la proposta del Movimento Nonviolento che invita in questo momento della nostra storia a fare esplicita e preventiva obiezione di coscienza da parte non solo dei giovani possibili coscritti, ma da parte di ognuno come dichiarazione di non collaborazione assoluta alla guerra?
L’obiezione di coscienza è un diritto che non può non essere riconosciuto anche in relazione alla guerra. Assistere a questa sorta di corsa al riarmo, quando stanno aumentando le sacche di povertà a livello sociale, i disservizi della sanità legati alla mancanza del personale e a un minore sovvenzionamento del sistema sanitario, assieme a tutto il degrado sociale, è qualcosa di paradossale che fa soffrire. A livello generale la dichiarazione del Movimento Nonviolento contiene una serie di aspetti condivisibili e di espressioni di libertà che sono da rispettare. Per riprendere il pensiero di Erasmo da Rotterdam, occorre specificare che la guerra è un abominio che deve essere evitato il più possibile: ogni tipo di violenza si ammanta di difesa di valori che in un regime di guerra vengono agitati come una bandiera.
In un libro di Erasmo intitolato Il lamento della pace, la pace viene rappresentata come una donna vestita di stracci e rifiutata da tutti che, rivolgendosi a un soldato che in guerra porta il vessillo della croce, gli chiede cosa abbia a che fare lui con quel simbolo di salvezza universale che lui impugna come una lancia pronta a far del male. È un esempio di come possono essere giustificate le guerre con pretesi valori. D’altra parte si può pensare al diritto-dovere di difendersi quando si è attaccati in maniera violenta e arrogante? L’Erasmo “pacifista” e diplomatico l’ammetteva, anche se si rendeva conto della violenza che si sarebbe scatenata e del sangue che sarebbe stato versato.
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