Europa, economia in tempo di guerra
Ogni intervento di Mario Draghi è destinato ad incidere profondamente sulle scelte politiche ed economiche che contano. Un suo breve articolo sul Financial Times del marzo 2020, a proposito del “debito buono” in tempo di epidemia, ha contribuito a porre le basi per il Next generation Eu.
Si può, quindi, solo immaginare l’impatto che avranno le 400 pagine della relazione sulla competitività dell’economia europea che gli è stata commissionata Ursula von der Leyen prima ancora della sua riconferma alla presidenza della Commissione europea.
Il contenuto del dossier è stato presentato in anteprima ai capigruppo del Parlamento europeo, ma verrà pubblicato dopo il 9 settembre. Il quotidiano statunitense Politico ne ha anticipato alcuni contenuti che poi sono stati rilanciati da altri fonti per evidenziare la conformità della visione dell’ex governatore della Bce con i vertici dell’Unione europea a proposito del sostegno al comparto delle industrie della Difesa tramite un ricorso diretto alla Banca europea degli investimenti.
«Mettere l’economia europea in assetto di guerra» è quanto ha detto Charles Michel nel convocare le ultime riunioni del Consiglio europeo che il politico belga ha finora presieduto.
Il testo integrale della relazione di Draghi, da leggere assieme a quello sul Mercato unico consegnato da Enrico Letta, andrà studiato attentamente perché orienterà, anche con riforme decisive annunciate, il lavoro complessivo della nuova Commissione grazie alla visione condivisa tra Draghi, ex presidente de consiglio italiano e la von der Leyen, ex ministra tedesca della Difesa.
La Germania è un Paese che mostra inaspettati segnali di crisi come dimostra l’annuncio della chiusura di alcune fabbriche da parte della Volkswagen e la discesa dei titoli in Borsa delle società della Difesa. È bastata un’indiscrezione sul freno alle forniture di armi all’Ucraina per mettere in difficoltà, ad esempio, la multinazionale Rheinmetall Defense che rientra tra i maggiori fornitori del grande piano di riarmo deciso dal cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz incalzato, ora, sul piano dei consensi dalla crescita della destra estrema di AfD.
La vera questione, rimossa in Europa fin dal 1954 con l’affossamento della Comunità europea di Difesa, riguarda la razionalizzazione delle spese e degli investimenti nel campo delle armi. Un numero considerevole di imprese del settore dipendono da forniture esterne e sono, allo stesso tempo, in competizione tra loro per conquistare commesse dai grandi acquirenti di sistemi d’arma. In termini di spesa militare, inoltre, i Paesi Ue, quindi senza il Regno Unito, impiegano il triplo delle risorse della Russia.
L’Italia, già prima dell’esecutivo Meloni, ha sostenuto con i suoi governi di diverso colore l’effetto positivo per l’economia delle spese in armi grazie anche al dual use, e cioè al possibile utilizzo in campo civile della tecnologia applicata in campo militare.
Un tesi rilanciata da Guido Crosetto. Il cofondatore di FdI, transitato dal vertice dell’associazione delle imprese della Difesa e Spazio alla guida del ministero della Difesa, pone tuttavia anche in evidenza la valenza strategica di tali investimenti in vista di «futuri scenari di impiego» dello strumento militare in un contesto che «sembra un ritorno in chiave tecnologicamente evoluta agli orrori dei conflitti mondiali del secolo scorso».
Con la consueta chiarezza il titolare della Difesa avverte che la nostra forza armata non può più essere concepita per le sole operazioni di peacekeeping (così il 25 gennaio 2023 nell’audizione congiunta delle commissioni Difesa ed Esteri di Camera e Senato).
La questione del duplice uso della libertà di ricerca (dual use) è molto insidioso. Come fa notare ad esempio Luca Ferrucci, professore ordinario di Economia e Management delle Imprese presso l’Università di Perugia, «se osserviamo i brevetti rilasciati nel XXI secolo in Occidente, ovvero le scoperte scientifico-tecnologiche realizzate, osserviamo che sono in modo quasi esclusivo rilasciati per impieghi nei settori civili, e non in quello militare». È ovvio quindi che si tratta di precise scelte di politica industriale. «Se alcune invenzioni – continua Ferrucci che abbiamo già intervistato per Città Nuova – sono nate in ambito militare e poi hanno trovato applicazioni in ambito civile, tutto ciò non significa che non si sarebbe potuto conseguire lo stesso risultato indirizzando gli sforzi direttamente nelle applicazioni in ambito civile», e anche con costi inferiori.
Sono alcune tracce di un dibattito da approfondire dopo la pubblicazione della relazione Draghi senza dimenticare, ad esempio, che in Italia molti dei progetti di ricerca di Ingegneria in campo accademico possono andare avanti perché sostenuti da Leonardo. Cioè da una società controllata dal ministero dell’Economia che da oltre 20 anni dismette produzione in campo civile per concentrarsi su quello della Difesa.
È di questi mesi la cessione da parte di Leonardo della proprietà dell’Industria Italiana Autobus, cioè di un settore decisivo della transizione ecologica e mobilità sostenibile richiesta sul mercato. La nuova proprietà, dopo la minaccia dei licenziamenti, punta su un socio cinese in grado di affrontare le sfide decisive dell’industria del futuro.
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